la colpa va riferita al processo generativo dell’atto illegittimo, alla sua attitudine a pregiudicare gli affidamenti dei privati, e non alla misura della difformità dai parametri normativi che governano l’esercizio del potere amministrativo: spetta all’amministrazione dimostrare l’assenza di colpa nel proprio comportamento illegittimo, che viola non solo l’affidamento del privato, ma anche l’impegno concretizzato nel precedente atto convenzionale.

<< Il comune non ha fornito alcun utile elemento in tal senso. Infatti, il generico riferimento alle difficoltà riguardanti l’attività interpretativa delle norme giuridiche e della ricostruzione fattuale delle circostanze risulta a tale scopo del tutto inadeguato._Emerge, al contrario, una palese violazione dei doveri di correttezza e di buon andamento, considerando che le determinazioni consensualmente fissate con la parte interessata sono state disattese unilateralmente, senza adeguata considerazione dell’interesse pubblico e della sua prevalenza sulle aspettative del soggetto privato.>>

Non si può dimenticare, poi, che, in linea di fatto, la mancanza di colpa potrebbe essere affermata, concretamente, solo in ipotesi molto circoscritte, che la dottrina fa coincidere, in sostanza, con l’errore scusabile dell’amministrazione, derivante da fattori particolari correlati, esemplificativamente, alla formulazione incerta delle norme applicate, alle oscillazioni interpretative della giurisprudenza, alla rilevante complessità del fatto, oppure ai comportamenti di altri soggetti._In tale contesto, non è plausibile ritenere che il danneggiato debba fornire la completa ed esauriente prova negativa dell’assenza di errori incolpevoli dell’amministrazione._Tale onere avrebbe un peso davvero eccessivo, anche considerando che il privato non è tenuto conoscere la struttura organizzativa dell’ente e le carenze operative eventualmente incidenti sull’elemento soggettivo dell’illecito.

Non si può escludere che, in futuro, la responsabilità della amministrazione possa essere costruita facendo ricorso a forme di imputazione oggettiva, almeno con riguardo a particolari vicende: si pensi al progetto concernente l’indennizzo forfettario del danno derivante dalla ritardata adozione del provvedimento amministrativo.

Ma, nell’assetto attuale, la responsabilità dell’amministrazione, conseguente all’adozione di provvedimenti illegittimi, resta saldamente inserita nel sistema dell’illecito delineato dagli articoli 2043 e seguenti del codice civile, anche per esigenze di coerenza complessiva dell’ordinamento e di necessaria omogeneità delle tecniche di protezione giuridica degli interessi meritevoli di tutela.

Del resto appare significativa la circostanza che le Sezioni unite della Cassazione, con la pronuncia n. 500/1999 hanno affermato la necessità di un apposito accertamento dell’elemento soggettivo dell’illecito proprio in relazione ad una ipotesi in cui la domanda risarcitoria conseguente all’adozione di atto illegittimo era stata proposta nel presupposto che fosse divenuta impossibile l’attuazione coattiva del giudicato di annullamento. _Ciò non impedisce, a priori, di pervenire ad esiti applicativi che riducano, in linea di fatto, il concreto rilievo dell’elemento soggettivo nella responsabilità dell’amministrazione._Ma tali conclusioni vanno ricercate, coerentemente, all’interno del sistema della responsabilità civile, così come ricostruito nell’elaborazione secolare delle Sezioni Unite Civili della Cassazione, giudice ordinario e naturale delle controversie riguardanti il risarcimento del danno.

In questa prospettiva, è necessario tenere conto delle più recenti acquisizioni in materia di elemento soggettivo dell’illecito, espresse dalla citata sentenza n. 500/1999.

Secondo la pronuncia (paragrafo 11), la responsabilità risarcitoria per la lesione di interessi legittimi impone di stabilire se l’evento dannoso “sia imputabile a dolo o colpa della P.A.; la colpa (unitamente al dolo) costituisce infatti componente essenziale della fattispecie aquiliana ex art. 2043 cod.civ.; e non sarà invocabile, ai fini dell’accertamento della colpa il principio secondo il quale la colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo, poiché tale principio, enunciato dalla giurisprudenza di questa S.C. con riferimento all’ipotesi di attività illecita, per lesione di un diritto soggettivo, secondo la tradizionale interpretazione dell’articolo 2043 c.c., non è conciliabile con la più ampia lettura della suindicata disposizione, svincolata dalla lesione di un diritto soggettivo”._Secondo le Sezioni Unite, quindi, l’imputazione della responsabilità non potrà avvenire “sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità del provvedimento, in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia), ma della P.A. intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiante) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni della discrezionalità”.

Con un complesso motivo di gravame, il comune appellante, contesta i capi della pronuncia relativi alla affermazione della responsabilità risarcitoria, deducendo la violazione dell’articolo 2043 del codice civile, sotto molteplici profili.

In particolare, l’amministrazione sostiene che il tribunale, disponendo accertamenti istruttori in ordine alla entità del risarcimento del danno, ha sostanzialmente affermato la responsabilità dell’amministrazione, senza accertare l’elemento soggettivo dell’illecito aquiliano.

A tale fine, secondo l’appellante, non è sufficiente allegare l’illegittimità del provvedimento amministrativo a suo tempo annullato dal tribunale, ma è necessario verificare, attentamente, la effettiva esistenza della colpa dell’amministrazione, secondo i parametri indicati dalla Cassazione, a Sezioni Unite, con la decisione n. 500 del 22 luglio 1999.

Il comune sostiene che, nel giudizio di primo grado, la ricorrente non ha svolto alcuna utile attività probatoria diretta a dimostrare la componente soggettiva dell’illecito, né il tribunale si è preoccupato di dimostrare la presenza di tutti gli elementi costitutivi del diritto al risarcimento.

In concreto, poi, l’appellante sostiene che non vi è alcuna colpa dell’amministrazione comunale, perché questa, nel negare la concessione edilizia richiesta, avrebbe semplicemente svolto un’attività interpretativa della disciplina urbanistica (di livello normativo e pianificatorio) rilevante nella fattispecie. La complessità delle questioni affrontate (in rapporto alla esatta individuazione del quadro urbanistico di riferimento, ai controversi temi della rilevanza delle sopravvenienze giuridiche ed alla forza di resistenza delle convenzioni urbanistiche) renderebbe pienamente scusabile l’errore di valutazione compiuto dall’amministrazione, considerando l’opinabilità delle soluzioni proposte.

Qual è il parere dell’adito giudice di appello del Consiglio di Stato

Il motivo è infondato, per le ragioni di seguito illustrate.

La Sezione rileva che la pronuncia impugnata, pur non statuendo espressamente, con un dispositivo di accertamento, in ordine alla sussistenza della responsabilità risarcitoria del comune, svolge un percorso argomentativo che presuppone, implicitamente, il pieno riconoscimento dell’illecito dell’amministrazione.

Ciò emerge dalla decisione di affidare al commissario ad acta il compito di fornire dettagliati elementi ritenuti necessari per quantificare la misura del risarcimento del danno. La statuizione, racchiusa all’interno di una pronuncia che non ha contenuto meramente istruttorio, ma fissa, puntualmente, le modalità di esecuzione del giudicato, dopo averne chiarito la portata sostanziale, presuppone, logicamente, il riconoscimento della responsabilità dell’amministrazione, correlata all’adozione dei provvedimenti illegittimi, a suo tempo annullati dal tribunale.

17 La mancanza di un’espressa statuizione del tribunale sugli aspetti soggettivi dell’illecito non costituisce frutto di una svista o di una inadeguata considerazione del tema decisorio, ma deriva da una precisa (per quanto opinabile) costruzione del ruolo della responsabilità civile dell’amministrazione conseguente all’adozione di atti illegittimi, annullati dal giudice con pronuncia passata in giudicato.

Il tribunale muove dalla premessa secondo cui il risarcimento del danno rappresenta (almeno nel presente giudizio) una forma di tutela della parte, vittoriosa nel giudizio di annullamento, alternativa o complementare all’ordinario processo di ottemperanza.

In questa prospettiva, il processo per l’esecuzione del giudicato mira a realizzare l’assetto di interessi delineato dalla pronuncia irrevocabile, mediante l’attuazione di tutte le necessarie misure ripristinatorie e conformative.

Il risarcimento del danno (per equivalente) avrebbe la funzione di completare e rendere effettiva la protezione dell’interesse del ricorrente, con particolare riguardo al ristoro dei pregiudizi derivanti dal ritardo nella concreta attuazione della decisione, e dalla impossibilità (parziale o totale; giuridica o materiale) di realizzare puntualmente il giudicato, per effetto delle sopravvenienze di fatto o di diritto.

Nel caso di specie, il diniego di concessione edilizia è stato annullato per motivi sostanziali, riguardanti la riconosciuta difformità dall’assetto urbanistico definito dalla convenzione di lottizzazione, non superata dalla successiva pianificazione (anch’essa ritenuta parzialmente illegittima).

Quindi, una volta accertata la fondatezza sostanziale della pretesa edificatoria dell’interessata, questa deve essere attuata, in forma specifica, mediante il rilascio del provvedimento dovuto, oppure, per equivalente, mediante la condanna dell’amministrazione al ristoro del pregiudizio economico subito dal privato e non coperto dalla materiale attuazione della pronuncia.

18 Il ragionamento del tribunale, che tocca alcuni dei temi più complessi e controversi del processo amministrativo, si sviluppa anche valorizzando la regola della “elasticità del giudicato” e dei correlati poteri di adattamento riconosciuti al giudice dell’ottemperanza.

La flessibilità del processo di esecuzione viene affermata nella sua accezione più ampia, proprio in base all’assunto secondo cui la parte del giudicato non attuabile in modo puntuale e specifico, per sopravvenuta impossibilità giuridica o materiale, può essere realizzata, in via succedanea, mediante il risarcimento del danno.

In questo modo, peraltro, il diritto al risarcimento del danno, conseguente all’adozione di atti amministrativi illegittimi, assume una peculiare collocazione sistematica, che risulta lontana dal quadro di riferimento basato sull’articolo 2043 del codice civile.

Si tratta di una costruzione densa di effetti applicativi, tanto sul piano processuale, quanto sul piano sostanziale.

19 Sul piano processuale, il tribunale non dubita della circostanza che la domanda di risarcimento del danno possa essere proposta, per la prima volta, in sede di esecuzione del giudicato, piuttosto che mediante la proposizione di un autonomo giudizio di cognizione. Anzi, proprio questa collocazione risulterebbe meglio rispondente all’esigenza di coordinare le due forme di tutela, complementari od alternative, spettanti al soggetto interessato.

Peraltro, su questo punto, nessuna delle parti ha proposto motivi di impugnazione; sicché, in sede di appello, non può essere affrontata la questione della ritualità del giudizio introdotto nelle forme del processo di esecuzione.

È utile osservare, tuttavia, che, secondo alcune recenti pronunce, il giudizio sul risarcimento del danno deve svolgersi, inderogabilmente, nelle forme ordinarie, proprio in considerazione del suo carattere cognitorio.

Ciò assume rilievo soprattutto ai fini della individuazione del giudice competente, in relazione al rispetto del principio del doppio grado: pertanto è sicuramente inammissibile una domanda di risarcimento del danno proposta al Consiglio di Stato in sede di giudizio di ottemperanza alla decisione d’appello che riforma una sentenza del tribunale.

Nel caso di specie, invece, la domanda di risarcimento del danno è stata proposta con le forme del giudizio di ottemperanza, ma davanti al tribunale.

Né emergono, in concreto, violazioni delle regole processuali poste a tutela del contraddittorio.

La pretesa al risarcimento del danno mira ad assicurare all’interessato l’utilità non più ottenibile attraverso l’esecuzione ordinaria della sentenza.

L’ottemperanza al giudicato è svincolata da ogni valutazione di responsabilità dell’amministrazione, nella parte in cui essa si realizza mediante lo svolgimento di apposite attività giuridiche e materiali. Ne deriva che l’accertamento della responsabilità è superfluo anche in tutte le ipotesi in cui la richiesta di risarcimento mira a compensare l’impossibilità di effettiva attuazione del giudicato, oppure il ritardo nella concreta realizzazione coattiva del decisum.

Detta tesi potrebbe presentare alcuni elementi di contatto con l’opinione dottrinaria, non recente, in forza della quale la responsabilità dell’amministrazione per l’adozione di atti illegittimi avrebbe carattere sostanzialmente indennitario, prescindendo da un giudizio di imputabilità soggettiva dell’illecito.

La tesi illustrata, per quanto suggestiva, non appare convincente.

Secondo le Sezioni Unite, l’imputazione della responsabilità non potrà avvenire “sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità del provvedimento, in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia), ma della P.A. intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiante) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni della discrezionalità”.

Detto indirizzo si era espresso anche attraverso l’affermazione secondo la quale, nell’ipotesi di attività provvedimentale della p. a., perché sussista la responsabilità civile di questa è richiesta non solo la violazione di un diritto soggettivo del privato con un atto o un provvedimento amministrativo ed il nesso di causalità fra l’atto stesso ed il danno ingiusto subito dal privato, ma anche l’elemento soggettivo del dolo o della colpa previsto e richiesto come elemento indefettibile dalla clausola generale di responsabilità contenuta nell’art. 2043 c.c.; a tale ultimo riguardo, il privato non dovrà provare anche la colpa dei singoli funzionari ma, peraltro, la colpa della p. a. può consistere sia nella violazione delle regole di comune prudenza, dando luogo ad attività provvedimentale negligente o imprudente, sia nella violazione di leggi o regolamenti alla cui osservanza la stessa p. a. è vincolata, dovendo osservare i principi di legalità, di imparzialità e di buon andamento prescritti dall’art. 97 cost (Cass., 24-05-1991, n. 5883).

Si supera così, il tradizionale indirizzo interpretativo, secondo il quale il diritto del privato al risarcimento del danno patrimoniale conseguenziale ad un atto amministrativo illegittimo, previo annullamento di esso da parte del giudice amministrativo, non postula la prova della colpa della p. a., di per sé ravvisabile nella violazione della legge con l’emissione ed esecuzione dell’atto medesimo (Cass., 22-10-1984, n. 5361).

Infatti, l’impostazione tradizionale sosteneva che l’annullamento da parte del giudice amministrativo dell’atto, che aveva degradato il diritto del privato a interesse legittimo, ne rimuove gli effetti e, rendendo configurabile una lesione del diritto soggettivo per fatto illecito della p.a., opera quale presupposto necessario dell’azione di risarcimento, senza che nel giudizio civile vi sia necessità di uno specifico accertamento dell’elemento soggettivo della imputabilità per colpa o dolo, perché la colpa della p.a. è già di per sé ravvisabile nella accertata illegittimità del provvedimento, cioè nella sua non conformità alle norme alle quali si doveva rapportare l’attività amministrativa, realizzata in violazione di esse con la emissione del provvedimento (necessariamente volontaria) e con la sua esecuzione, indipendentemente dalla natura del vizio per il quale è stato pronunciato l’annullamento (nel caso di specie di eccesso di potere desunto dalla carenza di motivazione dell’atto amministrativo impugnato) (Cass., sez. III, 09-06-1995, n. 6542).

La Sezione non ha motivo di discostarsi della più moderna impostazione ricostruttiva della Cassazione, la quale appare pienamente coerente con l’ampio tessuto argomentativo posto a base della riconosciuta risarcibilità degli interessi legittimi.

L’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione in materia di risarcimento del danno, fissata dal decreto legislativo n. 80/1998 e della legge n. 205/2000, assume un rilievo essenzialmente processuale e non muta i termini sostanziali della questione: la responsabilità della pubblica amministrazione, correlata all’adozione di atti amministrativi illegittimi, lesivi di posizioni giuridiche protette dall’ordinamento, va costruita secondo le regole comuni stabilite dal diritto delle obbligazioni.

Detta conclusione resta ferma anche se si considera la particolare disciplina contenuta nell’articolo 35 del decreto n. 80/1998, la quale, attraverso la previsione di un apposito procedimento di liquidazione del danno, fissa regole non perfettamente coincidenti con l’impianto codicistico e che, in qualche misura, sembrano ispirate alla concezione indennitaria della responsabilità conseguente all’adozione di provvedimenti illegittimi.

Al riguardo, è sufficiente osservare che il parere reso dall’Adunanza Generale sul testo poi confluito nel decreto n. 80/1998 chiarisce, senza incertezze, che la responsabilità dell’amministrazione si inserisce nel sistema complessivo dell’illecito e dei principi che lo governano.

24 Appaiono quindi riduttive le letture della sentenza delle Sezioni Unite, secondo cui la pronuncia avrebbe inteso individuare una sorta di attenuazione del principio della risarcibilità degli interessi legittimi, al trasparente scopo di ridurre l’onere economico dell’amministrazione e le conseguenze dirette ed indirette della responsabilità dell’ente pubblico nella sfera patrimoniale dei funzionari.

Né pare condivisibile l’interpretazione (anch’essa riduttiva), secondo cui il riferimento alla prova della colpa dell’amministrazione sarebbe stato svolto dalla Cassazione soltanto per esprimere un ulteriore argomento a favore della propria tesi ricostruttiva, che inquadra la responsabilità per lesione di interessi legittimi nel disegno normativo dell’articolo 2043.

Merita di essere segnalata la decisione numero 4239 del 6 agosto 2001, emessa dal Consiglio di Stato ed in particolare il seguente passaggio:

è tuttavia necessaria l’individuazione di adeguati criteri applicativi dei principi espressi dalla Cassazione.

In questa prospettiva, occorre intanto stabilire il significato della equivalenza fra la colpa e la violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione. Si tratta di parametri alquanto elastici, che evidenziano significativi elementi di distinzione rispetto alla colpa in senso tradizionale, così come desumibile dall’articolo 43 del codice penale (il quale pure forma oggetto di moderne ed interessanti letture interpretative, che ne evidenziano una nuova ed articolata configurazione).

È plausibile ritenere, quindi, che la Cassazione abbia correttamente riconosciuto la peculiarità della funzione amministrativa (e dei parametri normativi che la regolano, anche a livello costituzionale) certamente non riducibile alle comuni attività svolte dai soggetti dell’ordinamento, in considerazione della specifica disciplina dettata per la cura dell’interesse pubblico e delle oggettive caratteristiche del “contatto giuridico” (ampiamente variabili nei diversi casi concreti) stabilito tra l’amministrazione ed i soggetti coinvolti nella sua attività.

Non solo, ma il giudice ordinario ha certamente colto le caratteristiche specifiche della vicenda provvedimentale produttiva di danno, innestata in un rapporto giuridico complesso da cui derivano aspettative ed affidamenti di consistenza diversa, ma certamente protetti dall’ordinamento, anche in relazione alla loro componente patrimoniale.

È stato efficacemente sottolineato dalla dottrina più recente che il rapporto amministrativo costituisce un’ipotesi qualificata di “contatto sociale” tra i soggetti interessati e l’amministrazione. Il dovere di comportamento del soggetto pubblico (e quindi la misura della colpa) si definisce non solo in funzione delle specifiche regole che disciplinano il potere, ma anche, e soprattutto, sulla base di criteri diretti a valorizzare il concreto atteggiarsi di tale contatto, ed alla progressiva emersione dell’affidamento del privato in ordine alla positiva conclusione del procedimento.

Ciò non determina affatto l’assoggettamento dell’amministrazione ad un diritto speciale (privilegiato) in materia di responsabilità civile. Piuttosto, il riconoscimento di appositi criteri di specificazione della colpa si pone in linea di continuità con le più recenti acquisizioni sul tema della responsabilità civile, ormai orientate a relativizzare il concetto di colpa, in funzione del settore dell’attività considerato.

Sotto altro profilo, poi, non può essere trascurata la tendenza a fondare il giudizio di colpa su elementi obiettivi, ancorché a contenuto elastico: l’esigibilità della condotta richiesta all’agente deve essere misurata su parametri normativi concernenti le modalità dell’azione e l’incidenza sulla sfera giuridica e patrimoniale del danneggiato, piuttosto che su incerti apprezzamenti di carattere puramente soggettivo ed individualizzato.

Detta esigenza emerge con particolare evidenza nelle organizzazioni collettive complesse e nell’apparato amministrativo. L’elemento soggettivo è riferito all’ente, riguardato nella sua complessiva struttura. Pertanto, il tradizionale concetto della colpa deve evolversi verso una nozione più ampia, idonea a comprendere l’intero svolgimento dell’attività provvedimentale imputata all’amministrazione.

26 Ora, i criteri enunciati dalla Cassazione, nella loro sicura autonomia, presentano tuttavia alcune evidenti analogie con i tradizionali “vizi” del provvedimento amministrativo. La violazione della regola di imparzialità si sovrappone, in larga misura, al vizio di eccesso di potere. La trasgressione del principio di buon andamento ha significativi punti di contatto con la violazione di legge, intesa come mancato rispetto delle norme che specificano i contenuti e le modalità di esercizio del potere amministrativo.

Si tratta, peraltro, solo di una forte somiglianza tra i diversi parametri, che non segna affatto la piena ed assoluta equivalenza tra il giudizio di illegittimità e quello di accertamento della colpa.

27 Ad una prima e superficiale lettura, il rapporto tra i due gruppi di nozioni potrebbe essere inteso nel senso che la colpa è, in questa parte, una mera specificazione (aggravata) dei vizi del provvedimento.

Si dice, in sostanza, che la colpa si verificherebbe solo nei casi di illegittimità del provvedimento più grave ed evidente.

L’opinione in esame riflette anche un certo indirizzo del giudice comunitario, incline a fondare il giudizio di colpa sulla effettiva gravità dell’accertata violazione della norma.

Esisterebbe, quindi, una graduazione della illegittimità: solo quando essa trasmoda nella violazione dei parametri indicati dalla sentenza n. 500/1999 emergerebbe la colpa dell’amministrazione e la conseguente responsabilità risarcitoria.

Ma la tesi non risulta persuasiva, in quanto la colpa va riferita al processo generativo dell’atto illegittimo, alla sua attitudine a pregiudicare gli affidamenti dei privati, e non alla misura della difformità dai parametri normativi che governano l’esercizio del potere amministrativo.

La tesi criticata introdurrebbe, indirettamente, una limitazione della responsabilità alla colpa grave, senza adeguata base normativa.

Inoltre, la prospettiva limitatrice finirebbe per assegnare alla responsabilità dell’amministrazione una funzione prevalentemente sanzionatoria, mentre lo strumento risarcitorio è preordinato, essenzialmente, a realizzare l’effettiva protezione dell’interesse leso dall’attività illegittima.

Si può ritenere, in via largamente approssimativa, che le illegittimità più gravi esprimono, solitamente, anche la colpa dell’amministrazione. Ma non pare predicabile l’affermazione inversa: anche vizi oggettivamente meno evidenti (se considerati in modo isolato) potrebbero accompagnarsi alla colpa dell’amministrazione.

Ma non solo

In base alla regola generale racchiusa nell’articolo 2697 del codice civile (operante, in questa parte, anche nel processo amministrativo), il danneggiato ha l’onere di provare tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento (danno, nesso di causalità, colpa).

Ma detto onere può essere ragionevolmente adempiuto anche attraverso prove indirette ed adeguate semplificazioni probatorie consentite dall’ordinamento processuale.

In particolare, in questo ambito, assume rilievo lo strumento probatorio della presunzione. La accertata illegittimità dell’atto ritenuto lesivo dell’interesse del ricorrente può rappresentare, nella normalità dei casi, l’indice (grave, preciso e concordante) della colpa dell’amministrazione.

Non si tratta di un effetto automatico ed inderogabile, ma di una conseguenza altamente probabile della riscontrata illegittimità dell’atto.

Di regola, quindi, in base ad un apprezzamento di frequenza statistica, il danneggiato ben può limitarsi ad allegare l’illegittimità dell’atto amministrativo annullato (tanto più quando essa è definitivamente accertata dal giudicato amministrativo, il quale ne esprime dettagliatamente le ragioni), in quanto essa indica la violazione dei parametri che, nella generalità delle ipotesi, specificano la colpa dell’amministrazione.

In tali eventualità spetta all’amministrazione l’onere di fornire elementi istruttori (od anche meramente assertori) per superare le acquisizioni probatorie del giudizio.

In questo modo, non si intende affatto ripristinare gli indirizzi interpretativi definitivamente abbandonati dalle Sezioni Unite. L’orientamento precedente predicava, in ultima analisi, l’esistenza di una presunzione invincibile di colpa per l’adozione di atti amministrativi illegittimi.

Al contrario, l’accertata illegittimità dell’atto si deve ora inserire nel quadro complessivo degli accertamenti istruttori demandati al giudice amministrativo e non impone affatto l’incondizionata affermazione della responsabilità della PA.

29 È opportuno sottolineare che, in questa nuova prospettiva, il rilievo dell’accertamento dell’illegittimità non può fermarsi al dato estrinseco dell’intervenuto annullamento, ma riguarda necessariamente il contenuto della decisione e la sua attitudine ad evidenziare, anche in modo indiretto, la sussistenza della colpa dell’amministrazione.

Dunque, anche sotto questo profilo, il ricorso al meccanismo della presunzione relativa costituisce una semplificazione probatoria, ma non segna l’elusione del principio dell’onere della prova fissato dall’articolo 2697 del codice civile.

A cura di Sonia LAzzini

REPUBBLICA ITALIANA N. 4239/01 REG.DEC.

IN NOME DEL POPOLO ITALIANON. 8969 REG.RIC.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta SezioneANNO 2000

ha pronunciato la seguente

decisione

sul ricorso in appello n. 8969/2000 proposto dal Comune di Frattamaggiore, in persona del sindaco in carica rappresentato e difeso daLL’AVV. Bartolomeo Della Morte ed elettivamente domiciliato in Roma Corso Trieste n. 88 presso l’avv. Giorgio Recchia;

CONTRO

Anna Controinteressato, rappresentata e difesa dall’avv. Andrea Abbamonte ed elettivamente domiciliato presso lo stesso in Roma, Via degli Avignonesi n. 5;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania – Napoli Sezione Prima – 5 luglio 2000, n. 2627.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della parte appellata;

Esaminate le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti tutti gli atti di causa;

Relatore alla pubblica udienza del 24 aprile 2001, il Consigliere Marco Lipari;

Uditi gli avv.ti Della Morte ed Abbamonte;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

  1. La sentenza appellata, pronunciandosi su due ricorsi, proposti, rispettivamente, dalla Signora Anna Controinteressato (ricorso n. 9466/1999) e dal comune di Frattamaggiore (ricorso n. 10377/1999), ha provveduto sulle domande relative alla richiesta di esecuzione del giudicato di cui alla sentenza del Tar per la Campania, n. 278/1986 ed alla contestazione degli atti assunti dal commissario ad acta precedentemente nominato dal tribunale.
  2. Il comune appellante deduce l’erroneità della sentenza di primo grado, con riferimento ad alcuni dei capi della decisione che lo vedono soccombente.
  3. L’appellata resiste al gravame e propone un’impugnazione incidentale contro il capo della sentenza che ha accolto uno dei motivi articolati dal comune.

DIRITTO

  1. Per valutare adeguatamente i motivi dedotti con l’appello principale e con quello incidentale, è utile riassumere i tratti essenziali della vicenda all’origine del presente giudizio.

Con sentenza del 22 maggio 1986, n. 278/1986, confermata dalla decisione della Sezione in data 29 aprile 1991, n. 690/1991, il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, in accoglimento del ricorso proposto dalla Signora Costanzo (di cui la Signora Controinteressato è erede), annullava:

Secondo la pronuncia n. 278/1986, il diniego di concessione edilizia è illegittimo per vizi propri, in quanto l’asserito contrasto con la prescrizione pianificatoria in itinere avrebbe giustificato, se dimostrato, l’adozione di una misura di salvaguardia (sospensione della decisione sull’istanza), e non il diniego definitivo del titolo autorizzatorio. Il diniego è altresì viziato in via derivata, attesa l’illegittimità della previsione del piano, assunta dal comune quale parametro disciplinante l’edificabilità dell’area, in quanto la convenzione edilizia, stipulata nel 1977 dall’amministrazione con la proprietaria dell’area, aveva fissato un preciso impegno del comune, diretto ad imprimere una determinata destinazione all’area; detto obbligo non poteva essere disatteso in sede di pianificazione generale, se non previa accurata ricognizione delle ragioni di pubblico interesse ritenute prevalenti sulle aspettative del soggetto privato.

  1. In seguito all’inerzia dell’amministrazione comunale, la signora Controinteressato, nella qualità di erede dalla signora Costanzo, chiedeva al TAR l’esecuzione del giudicato.

Il tribunale accoglieva la domanda, ordinando l’esecuzione della sentenza e nominando un commissario ad acta.

Questi, con atto del 5 agosto 1999, rilasciava la concessione edilizia n. 4279.

L’amministrazione comunale, a sua volta, con atto n. 121/1999, adottato dal Capo del IV settore, disponeva l’annullamento della concessione edilizia rilasciata dal commissario, asserendo, fra l’altro, che nei grafici del progetto approvato “è riportata una diversa dislocazione planimetrica e volumetrica delle residenze e delle attrezzature, rispetto al planovolumetrico alla convenzione rep. N. 92495 del 30 settembre 1977”.

Con il ricorso n. 9466/1999, proposto nelle forme del giudizio di ottemperanza, la Signora Controinteressato impugnava la determinazione comunale di annullamento.

Quindi, con ricorso n. 10377/1999, il comune chiedeva di dichiarare nullo, o, quanto meno, annullabile, il provvedimento adottato dal commissario ad acta.

  1. Con la sentenza impugnata, il tribunale:
  1. In linea preliminare, va esaminata l’eccezione di inammissibilità dell’appello principale, sollevata dalla appellata Controinteressato.

L’interessata sostiene che il ricorso in appello doveva essere notificato anche al commissario ad acta, il quale aveva partecipato al giudizio di primo grado, in quanto destinatario della notifica dell’originario gravame proposto dalla Signora Controinteressato.

L’eccezione è infondata, per tre concorrenti ragioni.

In primo luogo, il difetto della notifica, se accertato, determinerebbe non già l’inammissibilità del ricorso in appello, ma solo l’onere di integrazione del contraddittorio nei confronti delle parti necessarie del processo.

In secondo luogo, occorre considerare che la sentenza di primo grado ha accolto le censure proposte dal comune contro gli atti del commissario ad acta. L’impugnazione svolta dall’amministrazione si rivolge contro il capo della pronuncia del tribunale concernente la fissazione delle nuove modalità esecutive della sentenza e la conseguente nomina di un diverso commissario ad acta. Pertanto, l’appello, non svolgendosi contro le statuizioni relative ai provvedimenti adottati dal precedente commissario ad acta, non doveva essere notificato a tale soggetto.

Infine, va evidenziato che il commissario ad acta non costituisce un soggetto autonomo, portatore di una distinta posizione giuridica. Il commissario ad acta è, invece, strumento attuativo della decisione del giudice, pronunciata in sede di esecuzione del giudicato.

Del resto, la Sezione ha più volte chiarito che l’appello proposto avverso la sentenza d’ottemperanza non deve essere notificato anche al commissario ad acta, sia perché la sua attività è riferibile alla stessa p.a. esecutata, sia perché egli è organo paragiurisdizionale (C. Stato, sez. V, 17-10-1995, n. 1433).

È appena il caso di osservare, poi, che la partecipazione di un soggetto al giudizio di primo grado non è condizione sufficiente per assumere la posizione di parte necessaria nella successiva fase di appello.

  1. Il comune appellante non contesta il capo della decisione del tribunale riguardante l’invalidità della determinazione comunale di annullare la concessione edilizia rilasciata dal commissario ad acta nominato in precedenza, ma propone due complessi motivi di gravame contro le altre statuizioni della pronuncia ad esso sfavorevoli.

In primo luogo, il comune deduce il vizio di ultra petizione della sentenza di primo grado, sostenendo che il tribunale non aveva il potere di assegnare alla ricorrente (per il tramite dell’attività sostitutiva svolta dal commissario ad acta) una concessione edilizia avente una volumetria inferiore a quella che formava oggetto della richiesta originaria. Del pari inammissibile è il potere di riconoscere il titolo autorizzatorio in un’area non coincidente con quella indicata nell’istanza e con caratteristiche difformi dal progetto.

A dire del comune, il ricorso proposto dall’interessata nell’ambito del giudizio per l’esecuzione del giudicato aveva contenuto meramente demolitorio, mirando ad ottenere soltanto la declaratoria di illegittimità del disposto annullamento comunale della concessione rilasciata dal commissario ad acta.

La censura è priva di fondamento.

Si deve escludere, intanto, che il ricorso proposto dall’interessata, rivolto contro l’atto di annullamento, possa essere qualificato come domanda a contenuto meramente impugnatorio.

In linea generale, il processo amministrativo esprime, con sempre maggiore nettezza, la propria attitudine a definire l’accertamento di un rapporto giuridico, senza risolversi nell’isolato apprezzamento dei vizi afferenti il singolo atto.

Questa caratteristica del processo è comunque evidente nel ricorso per l’esecuzione del giudicato quale deve ritenersi nella sostanza (come osservato esattamente dal TAR) la domanda del sig. Controinteressato. La contestazione degli atti elusivi del giudicato non è mai fine a sé stessa, ma mira ad accertare la sostanza del rapporto amministrativo definito dalla sentenza e le successive tappe della attuazione coattiva della pronuncia.

Nel caso di specie, poi, la statuizione sui contenuti della nuova concessione edilizia da rilasciare all’interessata deriva dall’inefficacia (affermata dallo stesso tribunale) del provvedimento concessorio adottato dal commissario ad acta.

L’indicazione delle caratteristiche della nuova concessione edilizia è conseguenziale al riconoscimento della invalidità del precedente atto e rappresenta il corretto esercizio del potere di individuare le modalità attuative del giudicato, in relazione alla nuova richiesta ritualmente formulata dalla parte interessata.

È appena il caso di osservare, poi, che la previsione di una concessione edilizia di dimensioni inferiori a quella oggetto della iniziale richiesta non segna una violazione del principio della corrispondenza tra la decisione e la domanda, perché si risolve, in questa parte, in un sostanziale accoglimento parziale dell’istanza proposta.

  1. Secondo il comune appellante, poi, la statuizione del primo giudice è comunque errata, perché l’oggetto del contendere è costituito dall’accertamento della possibilità (giuridica e materiale) di attuare una lottizzazione edilizia risalente a circa venti anni prima. In sede di esecuzione del giudicato, si tratta di verificare se le sopravvenute trasformazioni del tessuto urbanistico (in particolare: la nuova pianificazione comunale e la realizzazione di alcune opere pubbliche) consentano, o meno, la concreta attuazione della convenzione e permettano l’edificazione del manufatto oggetto della concessione edilizia illegittimamente rifiutata dal comune.

A dire dell’amministrazione appellante, la lottizzazione rappresenta un “unicum inscindibile”, la cui approvazione presuppone un esame accurato di tutte le relative componenti (volumi, cubature, aree esterne, altezze degli edifici). Pertanto, il “pacchetto unitario non può essere sminuzzato o settorializzato”.

La pronuncia dei giudici finirebbe “con il violare non solo ogni principio di natura urbanistica, ma addirittura di logica”. In particolare, la contraddizione deriverebbe dalla seguente circostanza:

  1. Anche in questa parte l’appello è infondato.

In punto di fatto, va evidenziato che la concessione edilizia n. 4279/1999, rilasciata dal commissario ad acta, presenta variazioni sostanziali rispetto all’originario progetto, riguardanti la consistenza, l’ubicazione e la volumetria del fabbricato.

Inoltre, l’opera ricade in aree che il piano regolatore generale, adottato con delibera consiliare n. 4 del 16 gennaio 1999, destina ad attrezzature collettive.

Secondo il tribunale, la determinazione del commissario ad acta è illegittima non tanto perché segna una consistente modifica all’oggetto dell’originaria richiesta di concessione edilizia, ma, piuttosto, perché non valuta adeguatamente l’effettiva compatibilità dell’opera con la mutata realtà giuridica e materiale.

A dire della sentenza appellata, la verifica approfondita delle trasformazioni del territorio realizzate medio tempore non comporta necessariamente la totale e radicale reiezione della domanda di esecuzione del giudicato, ma potrebbe consentire anche l’adozione di particolari misure attuative che contemperino le aspettative dell’interessato con le sopravvenienze giuridiche e fattuali.

È opportuno segnalare che, in tal modo, il tribunale non riconosce senz’altro la fondatezza della pretesa della ricorrente ad ottenere una concessione edilizia parzialmente diversa da quella oggetto della originaria richiesta. Tale esito è subordinato alla positiva individuazione di concrete modalità attuative, sulla base della relazione illustrativa affidata al commissario ad acta.

Detta circostanza, tuttavia, non attenua l’interesse del comune a contestare la pronuncia del tribunale, poiché l’amministrazione mira ad accertare, sin d’ora, la definitiva e radicale impossibilità di realizzare nuovi interventi edificatori nell’area, ora destinata ad attrezzature collettive.

  1. Nel merito, la censura è infondata.

In primo luogo, occorre considerare che il tribunale, con la decisione n. 2828/1997, anch’essa pronunciata in sede di esecuzione del giudicato di cui alla sentenza n. 278/1991, ha già statuito che l’intervenuta realizzazione di alcune opere di interesse pubblico (superstrada ed elettrodotto), insistenti sull’area interessata dall’intervento, assume “collocazione marginale”. Pertanto, essa, “se per un verso preclude l’edificazione nell’area di sedime (e nella relativa fascia di rispetto), non esclude per il resto il rilascio della concessione limitatamente alle opere da localizzare sul suolo residuo, con il rispetto delle distanze prescritte”.

Dunque, con riferimento ai mutamenti della realtà di fatto intervenuti medio tempore, esiste una decisione, ormai incontestabile, che ha chiarito la portata oggettiva del giudicato: l’effetto conformativo si deve attuare mediante la realizzazione concreta dell’interesse originario (espresso nella richiesta di concessione edilizia illegittimamente respinta dall’amministrazione) adattata, in parte, al mutato assetto materiale dei luoghi.

  1. In una prospettiva più generale, comunque, si deve valutare la rilevanza delle circostanze di fatto sopravvenute dopo il passaggio in giudicato della sentenza di cui si chiede l’esecuzione.

Secondo il tribunale, il problema va impostato attraverso “un delicato compito di bilanciamento degli interessi, in cui la compensazione tra il giudicato da eseguire e il nuovo tessuto attizio e normativo in cui lo stesso si deve calare, può essere, in linea generale, temperato con la contestuale adozione di ogni misura idonea allo scopo”.

In questo ordine di idee, secondo i giudici di primo grado, vanno considerati, congiuntamente, la “massima flessibilità” degli istituti processuali in tema di esecuzione della sentenza amministrativa e l’ampiezza dei poteri del giudice dell’ottemperanza.

Inoltre, a dire del tribunale, il giudicato amministrativo sugli interessi presenterebbe un grado di “certezza relativa”, perché destinato ad incidere sulla realtà dinamica dell’azione amministrativa.

  1. La Sezione condivide le conclusioni cui perviene, in concreto, la pronuncia appellata, ma ritiene opportuno svolgere alcune puntualizzazioni.

La “flessibilità” del giudizio di ottemperanza e la portata “relativa” del giudicato devono essere intese in un significato circoscritto, direttamente connesso al principio di effettività della tutela giurisdizionale. Anche l’ampiezza dei poteri del giudice amministrativo in sede di ottemperanza non è incondizionata, ma esprime pur sempre l’attuazione della decisione passata in giudicato, nel rispetto dei principi di divisione dei poteri e della certezza della statuizione ormai irrevocabile.

In tale contesto, quindi, la concreta delimitazione dei poteri del giudice dell’ottemperanza, in relazione all’apprezzamento delle vicende sopravvenute, va ragionevolmente condotta tenendo conto di una pluralità di fattori. Tra questi, si segnalano, in particolare:

  1. la consistenza della situazione giuridica soggettiva posta a base della domanda;
  2. la natura oppositiva o pretensiva dell’interesse azionato;
  3. il tipo di vizio accertato dalla sentenza di annullamento;
  4. il carattere vincolato o discrezionale del potere amministrativo in contestazione;
  5. le peculiarità della nuova situazione di fatto sopravvenuta.

In questa cornice di riferimento occorre poi tenere conto della circostanza che le limitazioni alla piena soddisfazione dell’interesse giuridico accertato con la sentenza passata in giudicato assumono rilievo certamente eccezionale nel contesto complessivo del sistema di giustizia amministrativa e non possono certamente realizzare inaccettabili forme di privilegi per l’amministrazione.

Inoltre, in questo ambito di riferimento, deve essere adeguatamente valorizzato il contenuto della domanda di esecuzione proposta dalla parte interessata, non di rado volta a precisare la richiesta in termini correlati ai nuovi interventi fattuali.

  1. A tale proposito, si è sostenuto che i fatti sopravvenuti possono porre limiti all’integrale ripristino di una data situazione il cui relativo obbligo derivi, per l’amministrazione, dal giudicato; tuttavia, tali fatti devono essere accertati con particolare riguardo alla loro capacità di impedire l’esercizio del diritto nascente dal giudicato (C. Stato, sez. VI, 13-04-1991, n. 199).

In senso analogo, si è affermato il principio secondo cui la circostanza che la mancata esecuzione del giudicato amministrativo sia causata da motivi in parte indipendenti dalla volontà dell’amministrazione non preclude la condanna di quest’ultima in sede di giudizio di ottemperanza, dal momento che l’inottemperanza è giustificabile soltanto quando derivi da assoluta impossibilità sopravvenuta e salva, comunque, l’eventuale responsabilità civile dell’amministrazione medesima (Cons. giust. amm. sic., 06-05-1987, n. 98).

Si tratta di principi giuridici pienamente condivisi dal collegio, in quanto esprimono la regola della esistenza di ragionevoli limiti (di tipo obiettivo e materiale) alla puntuale esecuzione del giudicato.

  1. La rilevanza dei mutamenti di fatto sopravvenuti alla decisione passata in giudicato, poi, assume rilevanza ulteriore quando si tratta di realizzare l’interesse pretensivo del ricorrente. In tali eventualità, la attuazione dell’interesse sostanziale della parte va compiuta non solo nei limiti definiti dal giudicato, ma anche considerando i vincoli oggettivi all’attività amministrativa correlati ai mutamenti fattuali medio tempore intervenuti.

La tutela ripristinatoria, diretta a realizzare gli interessi oppositivi azionati contro i provvedimenti amministrativi limitativi di diritti o facoltà, è, in linea tendenziale, volta ad assicurare il recupero del bene della vita sottratto illegittimamente dall’amministrazione. In tale eventualità, il momento esecutivo mira a ricostituire la situazione statica (o finale) alterata dall’atto annullato.

La tutela ordinatoria e conformativa, mirando a realizzare interessi pretensivi, pone in evidenza il profilo dinamico della situazione giuridica fatta valere, suscettibile di più intensi condizionamenti derivanti dal confronto tra il bene della vita richiesto dall’interessato e la realtà fattuale esistente nel momento in cui l’interesse è concretamente realizzato.

  1. Il rilievo dei fatti sopravvenuti, poi, assume particolare consistenza quando il momento conformativo della sentenza passata in giudicato non è pieno ed incondizionato, ma lascia alla amministrazione alcuni margini di discrezionalità nella rinnovata valutazione del rapporto e della richiesta dell’interessato.

Questo profilo emerge senz’altro nella vicenda in contestazione: la sentenza passata in giudicato afferma che l’annullamento del diniego di concessione edilizia dipende dall’accertata illegittimità dello strumento pianificatorio sopravvenuto all’originaria convenzione di lottizzazione. A sua volta, il piano è illegittimo perché non esprime in modo adeguato la presenza di ragioni di pubblico interesse idonee a giustificare il superamento del precedente accordo con il privato.

In tal modo, la sentenza pone diversi vincoli alla successiva attività amministrativa, ma non determina affatto il definitivo consolidamento della convenzione originaria, lasciando al comune i margini per una rinnovata valutazione della situazione di fatto e delle conseguenti scelte urbanistiche.

  1. La presenza di un profilo discrezionale, sia pure circoscritto, permette, quindi, di riconoscere rilevanza ad ulteriori vicende sopravvenute, di carattere oggettivo.

Nel caso di specie, poi, la sentenza appellata, pur riconoscendo, in linea generale, la possibilità di limitare la concreta attuazione del giudicato ad una parte soltanto dell’originaria richiesta di concessione edilizia, ha rinviato la definitiva statuizione sulle modalità attuative del decisum all’accertamento della situazione fattuale incisa dal giudicato.

Senza dire, poi, che, nel presente giudizio, la limitazione oggettiva della richiesta concessione edilizia è sostanzialmente conforme all’interesse fatto valere dalla ricorrente, la quale intende realizzare la propria aspettativa edificatoria secondo modalità non necessariamente conformi all’originario progetto.

  1. Con un secondo, complesso motivo di gravame, il comune appellante, contesta i capi della pronuncia relativi alla affermazione della responsabilità risarcitoria, deducendo la violazione dell’articolo 2043 del codice civile, sotto molteplici profili.

In particolare, l’amministrazione sostiene che il tribunale, disponendo accertamenti istruttori in ordine alla entità del risarcimento del danno, ha sostanzialmente affermato la responsabilità dell’amministrazione, senza accertare l’elemento soggettivo dell’illecito aquiliano.

A tale fine, secondo l’appellante, non è sufficiente allegare l’illegittimità del provvedimento amministrativo a suo tempo annullato dal tribunale, ma è necessario verificare, attentamente, la effettiva esistenza della colpa dell’amministrazione, secondo i parametri indicati dalla Cassazione, a Sezioni Unite, con la decisione n. 500 del 22 luglio 1999.

Il comune sostiene che, nel giudizio di primo grado, la ricorrente non ha svolto alcuna utile attività probatoria diretta a dimostrare la componente soggettiva dell’illecito, né il tribunale si è preoccupato di dimostrare la presenza di tutti gli elementi costitutivi del diritto al risarcimento.

In concreto, poi, l’appellante sostiene che non vi è alcuna colpa dell’amministrazione comunale, perché questa, nel negare la concessione edilizia richiesta, avrebbe semplicemente svolto un’attività interpretativa della disciplina urbanistica (di livello normativo e pianificatorio) rilevante nella fattispecie. La complessità delle questioni affrontate (in rapporto alla esatta individuazione del quadro urbanistico di riferimento, ai controversi temi della rilevanza delle sopravvenienze giuridiche ed alla forza di resistenza delle convenzioni urbanistiche) renderebbe pienamente scusabile l’errore di valutazione compiuto dall’amministrazione, considerando l’opinabilità delle soluzioni proposte.

  1. Il motivo è infondato, per le ragioni di seguito illustrate.

La Sezione rileva che la pronuncia impugnata, pur non statuendo espressamente, con un dispositivo di accertamento, in ordine alla sussistenza della responsabilità risarcitoria del comune, svolge un percorso argomentativo che presuppone, implicitamente, il pieno riconoscimento dell’illecito dell’amministrazione.

Ciò emerge dalla decisione di affidare al commissario ad acta il compito di fornire dettagliati elementi ritenuti necessari per quantificare la misura del risarcimento del danno. La statuizione, racchiusa all’interno di una pronuncia che non ha contenuto meramente istruttorio, ma fissa, puntualmente, le modalità di esecuzione del giudicato, dopo averne chiarito la portata sostanziale, presuppone, logicamente, il riconoscimento della responsabilità dell’amministrazione, correlata all’adozione dei provvedimenti illegittimi, a suo tempo annullati dal tribunale.

  1. La mancanza di un’espressa statuizione del tribunale sugli aspetti soggettivi dell’illecito non costituisce frutto di una svista o di una inadeguata considerazione del tema decisorio, ma deriva da una precisa (per quanto opinabile) costruzione del ruolo della responsabilità civile dell’amministrazione conseguente all’adozione di atti illegittimi, annullati dal giudice con pronuncia passata in giudicato.

Il tribunale muove dalla premessa secondo cui il risarcimento del danno rappresenta (almeno nel presente giudizio) una forma di tutela della parte, vittoriosa nel giudizio di annullamento, alternativa o complementare all’ordinario processo di ottemperanza.

In questa prospettiva, il processo per l’esecuzione del giudicato mira a realizzare l’assetto di interessi delineato dalla pronuncia irrevocabile, mediante l’attuazione di tutte le necessarie misure ripristinatorie e conformative.

Il risarcimento del danno (per equivalente) avrebbe la funzione di completare e rendere effettiva la protezione dell’interesse del ricorrente, con particolare riguardo al ristoro dei pregiudizi derivanti dal ritardo nella concreta attuazione della decisione, e dalla impossibilità (parziale o totale; giuridica o materiale) di realizzare puntualmente il giudicato, per effetto delle sopravvenienze di fatto o di diritto.

Nel caso di specie, il diniego di concessione edilizia è stato annullato per motivi sostanziali, riguardanti la riconosciuta difformità dall’assetto urbanistico definito dalla convenzione di lottizzazione, non superata dalla successiva pianificazione (anch’essa ritenuta parzialmente illegittima).

Quindi, una volta accertata la fondatezza sostanziale della pretesa edificatoria dell’interessata, questa deve essere attuata, in forma specifica, mediante il rilascio del provvedimento dovuto, oppure, per equivalente, mediante la condanna dell’amministrazione al ristoro del pregiudizio economico subito dal privato e non coperto dalla materiale attuazione della pronuncia.

  1. Il ragionamento del tribunale, che tocca alcuni dei temi più complessi e controversi del processo amministrativo, si sviluppa anche valorizzando la regola della “elasticità del giudicato” e dei correlati poteri di adattamento riconosciuti al giudice dell’ottemperanza.

La flessibilità del processo di esecuzione viene affermata nella sua accezione più ampia, proprio in base all’assunto secondo cui la parte del giudicato non attuabile in modo puntuale e specifico, per sopravvenuta impossibilità giuridica o materiale, può essere realizzata, in via succedanea, mediante il risarcimento del danno.

In questo modo, peraltro, il diritto al risarcimento del danno, conseguente all’adozione di atti amministrativi illegittimi, assume una peculiare collocazione sistematica, che risulta lontana dal quadro di riferimento basato sull’articolo 2043 del codice civile.

Si tratta di una costruzione densa di effetti applicativi, tanto sul piano processuale, quanto sul piano sostanziale.

  1. Sul piano processuale, il tribunale non dubita della circostanza che la domanda di risarcimento del danno possa essere proposta, per la prima volta, in sede di esecuzione del giudicato, piuttosto che mediante la proposizione di un autonomo giudizio di cognizione. Anzi, proprio questa collocazione risulterebbe meglio rispondente all’esigenza di coordinare le due forme di tutela, complementari od alternative, spettanti al soggetto interessato.

Peraltro, su questo punto, nessuna delle parti ha proposto motivi di impugnazione; sicché, in sede di appello, non può essere affrontata la questione della ritualità del giudizio introdotto nelle forme del processo di esecuzione.

È utile osservare, tuttavia, che, secondo alcune recenti pronunce, il giudizio sul risarcimento del danno deve svolgersi, inderogabilmente, nelle forme ordinarie, proprio in considerazione del suo carattere cognitorio.

Ciò assume rilievo soprattutto ai fini della individuazione del giudice competente, in relazione al rispetto del principio del doppio grado: pertanto è sicuramente inammissibile una domanda di risarcimento del danno proposta al Consiglio di Stato in sede di giudizio di ottemperanza alla decisione d’appello che riforma una sentenza del tribunale.

Nel caso di specie, invece, la domanda di risarcimento del danno è stata proposta con le forme del giudizio di ottemperanza, ma davanti al tribunale.

Né emergono, in concreto, violazioni delle regole processuali poste a tutela del contraddittorio.

  1. Sul piano sostanziale, la costruzione sistematica della sentenza appellata comporta una rilevante conseguenza applicativa.

La pretesa al risarcimento del danno mira ad assicurare all’interessato l’utilità non più ottenibile attraverso l’esecuzione ordinaria della sentenza.

L’ottemperanza al giudicato è svincolata da ogni valutazione di responsabilità dell’amministrazione, nella parte in cui essa si realizza mediante lo svolgimento di apposite attività giuridiche e materiali. Ne deriva che l’accertamento della responsabilità è superfluo anche in tutte le ipotesi in cui la richiesta di risarcimento mira a compensare l’impossibilità di effettiva attuazione del giudicato, oppure il ritardo nella concreta realizzazione coattiva del decisum.

Detta tesi potrebbe presentare alcuni elementi di contatto con l’opinione dottrinaria, non recente, in forza della quale la responsabilità dell’amministrazione per l’adozione di atti illegittimi avrebbe carattere sostanzialmente indennitario, prescindendo da un giudizio di imputabilità soggettiva dell’illecito.

  1. La tesi illustrata, per quanto suggestiva, non appare convincente.

Non si può escludere che, in futuro, la responsabilità della amministrazione possa essere costruita facendo ricorso a forme di imputazione oggettiva, almeno con riguardo a particolari vicende: si pensi al progetto concernente l’indennizzo forfettario del danno derivante dalla ritardata adozione del provvedimento amministrativo.

Ma, nell’assetto attuale, la responsabilità dell’amministrazione, conseguente all’adozione di provvedimenti illegittimi, resta saldamente inserita nel sistema dell’illecito delineato dagli articoli 2043 e seguenti del codice civile, anche per esigenze di coerenza complessiva dell’ordinamento e di necessaria omogeneità delle tecniche di protezione giuridica degli interessi meritevoli di tutela.

Del resto appare significativa la circostanza che le Sezioni unite della Cassazione, con la pronuncia n. 500/1999 hanno affermato la necessità di un apposito accertamento dell’elemento soggettivo dell’illecito proprio in relazione ad una ipotesi in cui la domanda risarcitoria conseguente all’adozione di atto illegittimo era stata proposta nel presupposto che fosse divenuta impossibile l’attuazione coattiva del giudicato di annullamento.

Ciò non impedisce, a priori, di pervenire ad esiti applicativi che riducano, in linea di fatto, il concreto rilievo dell’elemento soggettivo nella responsabilità dell’amministrazione.

Ma tali conclusioni vanno ricercate, coerentemente, all’interno del sistema della responsabilità civile, così come ricostruito nell’elaborazione secolare delle Sezioni Unite Civili della Cassazione, giudice ordinario e naturale delle controversie riguardanti il risarcimento del danno.

  1. In questa prospettiva, è necessario tenere conto delle più recenti acquisizioni in materia di elemento soggettivo dell’illecito, espresse dalla citata sentenza n. 500/1999.

Secondo la pronuncia (paragrafo 11), la responsabilità risarcitoria per la lesione di interessi legittimi impone di stabilire se l’evento dannoso “sia imputabile a dolo o colpa della P.A.; la colpa (unitamente al dolo) costituisce infatti componente essenziale della fattispecie aquiliana ex art. 2043 cod.civ.; e non sarà invocabile, ai fini dell’accertamento della colpa il principio secondo il quale la colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo, poiché tale principio, enunciato dalla giurisprudenza di questa S.C. con riferimento all’ipotesi di attività illecita, per lesione di un diritto soggettivo, secondo la tradizionale interpretazione dell’articolo 2043 c.c., non è conciliabile con la più ampia lettura della suindicata disposizione, svincolata dalla lesione di un diritto soggettivo”.

Secondo le Sezioni Unite, quindi, l’imputazione della responsabilità non potrà avvenire “sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità del provvedimento, in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia), ma della P.A. intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiante) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni della discrezionalità”.

Detto indirizzo si era espresso anche attraverso l’affermazione secondo la quale, nell’ipotesi di attività provvedimentale della p. a., perché sussista la responsabilità civile di questa è richiesta non solo la violazione di un diritto soggettivo del privato con un atto o un provvedimento amministrativo ed il nesso di causalità fra l’atto stesso ed il danno ingiusto subito dal privato, ma anche l’elemento soggettivo del dolo o della colpa previsto e richiesto come elemento indefettibile dalla clausola generale di responsabilità contenuta nell’art. 2043 c.c.; a tale ultimo riguardo, il privato non dovrà provare anche la colpa dei singoli funzionari ma, peraltro, la colpa della p. a. può consistere sia nella violazione delle regole di comune prudenza, dando luogo ad attività provvedimentale negligente o imprudente, sia nella violazione di leggi o regolamenti alla cui osservanza la stessa p. a. è vincolata, dovendo osservare i principi di legalità, di imparzialità e di buon andamento prescritti dall’art. 97 cost (Cass., 24-05-1991, n. 5883).

23 Si supera così, il tradizionale indirizzo interpretativo, secondo il quale il diritto del privato al risarcimento del danno patrimoniale conseguenziale ad un atto amministrativo illegittimo, previo annullamento di esso da parte del giudice amministrativo, non postula la prova della colpa della p. a., di per sé ravvisabile nella violazione della legge con l’emissione ed esecuzione dell’atto medesimo (Cass., 22-10-1984, n. 5361).

Infatti, l’impostazione tradizionale sosteneva che l’annullamento da parte del giudice amministrativo dell’atto, che aveva degradato il diritto del privato a interesse legittimo, ne rimuove gli effetti e, rendendo configurabile una lesione del diritto soggettivo per fatto illecito della p.a., opera quale presupposto necessario dell’azione di risarcimento, senza che nel giudizio civile vi sia necessità di uno specifico accertamento dell’elemento soggettivo della imputabilità per colpa o dolo, perché la colpa della p.a. è già di per sé ravvisabile nella accertata illegittimità del provvedimento, cioè nella sua non conformità alle norme alle quali si doveva rapportare l’attività amministrativa, realizzata in violazione di esse con la emissione del provvedimento (necessariamente volontaria) e con la sua esecuzione, indipendentemente dalla natura del vizio per il quale è stato pronunciato l’annullamento (nel caso di specie di eccesso di potere desunto dalla carenza di motivazione dell’atto amministrativo impugnato) (Cass., sez. III, 09-06-1995, n. 6542).

  1. La Sezione non ha motivo di discostarsi della più moderna impostazione ricostruttiva della Cassazione, la quale appare pienamente coerente con l’ampio tessuto argomentativo posto a base della riconosciuta risarcibilità degli interessi legittimi.

L’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione in materia di risarcimento del danno, fissata dal decreto legislativo n. 80/1998 e della legge n. 205/2000, assume un rilievo essenzialmente processuale e non muta i termini sostanziali della questione: la responsabilità della pubblica amministrazione, correlata all’adozione di atti amministrativi illegittimi, lesivi di posizioni giuridiche protette dall’ordinamento, va costruita secondo le regole comuni stabilite dal diritto delle obbligazioni.

Detta conclusione resta ferma anche se si considera la particolare disciplina contenuta nell’articolo 35 del decreto n. 80/1998, la quale, attraverso la previsione di un apposito procedimento di liquidazione del danno, fissa regole non perfettamente coincidenti con l’impianto codicistico e che, in qualche misura, sembrano ispirate alla concezione indennitaria della responsabilità conseguente all’adozione di provvedimenti illegittimi.

Al riguardo, è sufficiente osservare che il parere reso dall’Adunanza Generale sul testo poi confluito nel decreto n. 80/1998 chiarisce, senza incertezze, che la responsabilità dell’amministrazione si inserisce nel sistema complessivo dell’illecito e dei principi che lo governano.

  1. Appaiono quindi riduttive le letture della sentenza delle Sezioni Unite, secondo cui la pronuncia avrebbe inteso individuare una sorta di attenuazione del principio della risarcibilità degli interessi legittimi, al trasparente scopo di ridurre l’onere economico dell’amministrazione e le conseguenze dirette ed indirette della responsabilità dell’ente pubblico nella sfera patrimoniale dei funzionari.

Né pare condivisibile l’interpretazione (anch’essa riduttiva), secondo cui il riferimento alla prova della colpa dell’amministrazione sarebbe stato svolto dalla Cassazione soltanto per esprimere un ulteriore argomento a favore della propria tesi ricostruttiva, che inquadra la responsabilità per lesione di interessi legittimi nel disegno normativo dell’articolo 2043.

  1. Svolte queste premesse, è tuttavia necessaria l’individuazione di adeguati criteri applicativi dei principi espressi dalla Cassazione.

In questa prospettiva, occorre intanto stabilire il significato della equivalenza fra la colpa e la violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione. Si tratta di parametri alquanto elastici, che evidenziano significativi elementi di distinzione rispetto alla colpa in senso tradizionale, così come desumibile dall’articolo 43 del codice penale (il quale pure forma oggetto di moderne ed interessanti letture interpretative, che ne evidenziano una nuova ed articolata configurazione).

È plausibile ritenere, quindi, che la Cassazione abbia correttamente riconosciuto la peculiarità della funzione amministrativa (e dei parametri normativi che la regolano, anche a livello costituzionale) certamente non riducibile alle comuni attività svolte dai soggetti dell’ordinamento, in considerazione della specifica disciplina dettata per la cura dell’interesse pubblico e delle oggettive caratteristiche del “contatto giuridico” (ampiamente variabili nei diversi casi concreti) stabilito tra l’amministrazione ed i soggetti coinvolti nella sua attività.

Non solo, ma il giudice ordinario ha certamente colto le caratteristiche specifiche della vicenda provvedimentale produttiva di danno, innestata in un rapporto giuridico complesso da cui derivano aspettative ed affidamenti di consistenza diversa, ma certamente protetti dall’ordinamento, anche in relazione alla loro componente patrimoniale.

È stato efficacemente sottolineato dalla dottrina più recente che il rapporto amministrativo costituisce un’ipotesi qualificata di “contatto sociale” tra i soggetti interessati e l’amministrazione. Il dovere di comportamento del soggetto pubblico (e quindi la misura della colpa) si definisce non solo in funzione delle specifiche regole che disciplinano il potere, ma anche, e soprattutto, sulla base di criteri diretti a valorizzare il concreto atteggiarsi di tale contatto, ed alla progressiva emersione dell’affidamento del privato in ordine alla positiva conclusione del procedimento.

Ciò non determina affatto l’assoggettamento dell’amministrazione ad un diritto speciale (privilegiato) in materia di responsabilità civile. Piuttosto, il riconoscimento di appositi criteri di specificazione della colpa si pone in linea di continuità con le più recenti acquisizioni sul tema della responsabilità civile, ormai orientate a relativizzare il concetto di colpa, in funzione del settore dell’attività considerato.

Sotto altro profilo, poi, non può essere trascurata la tendenza a fondare il giudizio di colpa su elementi obiettivi, ancorché a contenuto elastico: l’esigibilità della condotta richiesta all’agente deve essere misurata su parametri normativi concernenti le modalità dell’azione e l’incidenza sulla sfera giuridica e patrimoniale del danneggiato, piuttosto che su incerti apprezzamenti di carattere puramente soggettivo ed individualizzato.

Detta esigenza emerge con particolare evidenza nelle organizzazioni collettive complesse e nell’apparato amministrativo. L’elemento soggettivo è riferito all’ente, riguardato nella sua complessiva struttura. Pertanto, il tradizionale concetto della colpa deve evolversi verso una nozione più ampia, idonea a comprendere l’intero svolgimento dell’attività provvedimentale imputata all’amministrazione.

  1. Ora, i criteri enunciati dalla Cassazione, nella loro sicura autonomia, presentano tuttavia alcune evidenti analogie con i tradizionali “vizi” del provvedimento amministrativo. La violazione della regola di imparzialità si sovrappone, in larga misura, al vizio di eccesso di potere. La trasgressione del principio di buon andamento ha significativi punti di contatto con la violazione di legge, intesa come mancato rispetto delle norme che specificano i contenuti e le modalità di esercizio del potere amministrativo.

Si tratta, peraltro, solo di una forte somiglianza tra i diversi parametri, che non segna affatto la piena ed assoluta equivalenza tra il giudizio di illegittimità e quello di accertamento della colpa.

  1. Ad una prima e superficiale lettura, il rapporto tra i due gruppi di nozioni potrebbe essere inteso nel senso che la colpa è, in questa parte, una mera specificazione (aggravata) dei vizi del provvedimento.

Si dice, in sostanza, che la colpa si verificherebbe solo nei casi di illegittimità del provvedimento più grave ed evidente.

L’opinione in esame riflette anche un certo indirizzo del giudice comunitario, incline a fondare il giudizio di colpa sulla effettiva gravità dell’accertata violazione della norma.

Esisterebbe, quindi, una graduazione della illegittimità: solo quando essa trasmoda nella violazione dei parametri indicati dalla sentenza n. 500/1999 emergerebbe la colpa dell’amministrazione e la conseguente responsabilità risarcitoria.

Ma la tesi non risulta persuasiva, in quanto la colpa va riferita al processo generativo dell’atto illegittimo, alla sua attitudine a pregiudicare gli affidamenti dei privati, e non alla misura della difformità dai parametri normativi che governano l’esercizio del potere amministrativo.

La tesi criticata introdurrebbe, indirettamente, una limitazione della responsabilità alla colpa grave, senza adeguata base normativa.

Inoltre, la prospettiva limitatrice finirebbe per assegnare alla responsabilità dell’amministrazione una funzione prevalentemente sanzionatoria, mentre lo strumento risarcitorio è preordinato, essenzialmente, a realizzare l’effettiva protezione dell’interesse leso dall’attività illegittima.

Si può ritenere, in via largamente approssimativa, che le illegittimità più gravi esprimono, solitamente, anche la colpa dell’amministrazione. Ma non pare predicabile l’affermazione inversa: anche vizi oggettivamente meno evidenti (se considerati in modo isolato) potrebbero accompagnarsi alla colpa dell’amministrazione.

  1. Semmai, i riscontrati punti di contatto fra le due differenti ed autonome valutazioni assumono un rilievo di primo piano in rapporto ai problemi applicativi concernenti l’assolvimento dell’onere probatorio gravante sul danneggiato.

In base alla regola generale racchiusa nell’articolo 2697 del codice civile (operante, in questa parte, anche nel processo amministrativo), il danneggiato ha l’onere di provare tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento (danno, nesso di causalità, colpa).

Ma detto onere può essere ragionevolmente adempiuto anche attraverso prove indirette ed adeguate semplificazioni probatorie consentite dall’ordinamento processuale.

In particolare, in questo ambito, assume rilievo lo strumento probatorio della presunzione. La accertata illegittimità dell’atto ritenuto lesivo dell’interesse del ricorrente può rappresentare, nella normalità dei casi, l’indice (grave, preciso e concordante) della colpa dell’amministrazione.

Non si tratta di un effetto automatico ed inderogabile, ma di una conseguenza altamente probabile della riscontrata illegittimità dell’atto.

Di regola, quindi, in base ad un apprezzamento di frequenza statistica, il danneggiato ben può limitarsi ad allegare l’illegittimità dell’atto amministrativo annullato (tanto più quando essa è definitivamente accertata dal giudicato amministrativo, il quale ne esprime dettagliatamente le ragioni), in quanto essa indica la violazione dei parametri che, nella generalità delle ipotesi, specificano la colpa dell’amministrazione.

In tali eventualità spetta all’amministrazione l’onere di fornire elementi istruttori (od anche meramente assertori) per superare le acquisizioni probatorie del giudizio.

In questo modo, non si intende affatto ripristinare gli indirizzi interpretativi definitivamente abbandonati dalle Sezioni Unite. L’orientamento precedente predicava, in ultima analisi, l’esistenza di una presunzione invincibile di colpa per l’adozione di atti amministrativi illegittimi.

Al contrario, l’accertata illegittimità dell’atto si deve ora inserire nel quadro complessivo degli accertamenti istruttori demandati al giudice amministrativo e non impone affatto l’incondizionata affermazione della responsabilità della PA.

  1. È opportuno sottolineare che, in questa nuova prospettiva, il rilievo dell’accertamento dell’illegittimità non può fermarsi al dato estrinseco dell’intervenuto annullamento, ma riguarda necessariamente il contenuto della decisione e la sua attitudine ad evidenziare, anche in modo indiretto, la sussistenza della colpa dell’amministrazione.

Dunque, anche sotto questo profilo, il ricorso al meccanismo della presunzione relativa costituisce una semplificazione probatoria, ma non segna l’elusione del principio dell’onere della prova fissato dall’articolo 2697 del codice civile.

  1. Non si può dimenticare, poi, che, in linea di fatto, la mancanza di colpa potrebbe essere affermata, concretamente, solo in ipotesi molto circoscritte, che la dottrina fa coincidere, in sostanza, con l’errore scusabile dell’amministrazione, derivante da fattori particolari correlati, esemplificativamente, alla formulazione incerta delle norme applicate, alle oscillazioni interpretative della giurisprudenza, alla rilevante complessità del fatto, oppure ai comportamenti di altri soggetti.

In tale contesto, non è plausibile ritenere che il danneggiato debba fornire la completa ed esauriente prova negativa dell’assenza di errori incolpevoli dell’amministrazione.

Tale onere avrebbe un peso davvero eccessivo, anche considerando che il privato non è tenuto conoscere la struttura organizzativa dell’ente e le carenze operative eventualmente incidenti sull’elemento soggettivo dell’illecito.

  1. Vi è poi da considerare un altro profilo della questione, strettamente correlato all’oggetto della controversia in esame e del provvedimento illegittimo che l’interessata assume produttivo di danno.

Al riguardo, si deve intanto ricordare che la lesione lamentata dalla ricorrente deriva, in concreto, dal diniego illegittimo di una concessione edilizia (provvedimento adottato sul presupposto, anch’esso illegittimo, di un nuovo strumento pianificatorio sostitutivo della precedente lottizzazione convenzionata). In altri termini, la posizione giuridica fatta valere dall’interessata presenta il contenuto dell’interesse pretensivo, direttamente appuntato sulla realizzazione dell’aspettativa edificatoria, che costituisce componente essenziale del diritto di proprietà immobiliare ed è cristallizzata nella presentazione di una istanza all’amministrazione.

L’iniziativa dell’interessato pone in luce un nuovo e qualificato “contatto sociale” (oltre che giuridico) tra il privato ed il soggetto pubblico, aprendo un procedimento amministrativo dal quale scaturiscono obblighi strumentali e formali delle parti, ma anche il fondamentale dovere dell’amministrazione di provvedere sulla richiesta.

Detto obbligo esprime certo la rilevanza dell’interesse pubblico ed ha, in questa parte, destinatari indeterminati. Ma il dovere dell’amministrazione si dirige specificamente verso la posizione differenziata del richiedente, in special modo nelle ipotesi in cui l’attività provvedimentale ha carattere vincolato, in via esclusiva o prevalente, e quando il provvedimento finale positivo presenta natura autorizzatoria, rimuovendo un ostacolo all’esercizio di una facoltà dell’interessato.

In tali casi, il contatto qualificato tra l’amministrazione ed il privato manifesta, progressivamente, l’emersione della pretesa dell’interessato e la sua crescente concretezza. L’interesse del privato non è, necessariamente, a “soddisfazione garantita”, poiché la sua attuazione risulta mediata dal procedimento amministrativo. Ma, nel corso dell’iter, i comportamenti positivi e negativi dell’amministrazione, parametrati sulle regole (generali e speciali) che governano il procedimento amministrativo, possono tradursi nella lesione patrimoniale dell’interesse al conseguimento del bene.

In tal modo, la ricostruzione della particolare fisionomia del rapporto tra l’amministrazione pubblica ed il privato permette di delineare l’effettiva dimensione del danno ingiusto, suscettibile di risarcimento. La valutazione prognostica compiuta dal giudice in relazione agli interessi pretensivi mira ad individuare quelle situazioni suscettibili di “determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioè una situazione che, secondo la disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole, e risultava quindi giuridicamente protetta”.

Ma questa impostazione ricostruttiva consente anche di delineare la struttura dell’illecito imputato all’amministrazione e le modalità di accertamento della sua componente soggettiva.

Secondo questa lettura interpretativa (sinteticamente riconducibile al filone teorico della responsabilità derivante dalla violazione di obblighi da contatto sociale qualificato), il diritto al risarcimento del danno conseguente all’adozione di provvedimenti illegittimi presenta una fisionomia sui generis, non riducibile al modello aquiliano dell’articolo 2043 del codice civile, ed è caratterizzata dal rilievo di alcuni tratti della responsabilità precontrattuale e della responsabilità per inadempimento di obbligazioni.

La ricostruzione ha il pregio di evidenziare la specifica fisionomia della posizione giuridica del privato, coinvolto nella vicenda amministrativa che si sviluppa attraverso il procedere dall’attività amministrativa. Il ricorso al modello ricostruttivo dell’interesse legittimo, inteso come posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo, viene perfezionato ed affinato, mediante il riferimento alla complessità delle situazioni giuridiche riferibili alle parti sostanziali del procedimento.

Una volta avviato il procedimento amministrativo, su iniziativa di parte, si costituisce un rapporto giuridico nuovo, a struttura complessa, sostanzialmente assimilabile, per alcuni profili, a quello obbligatorio di diritto comune, oppure alla situazione tipica delle trattative precontrattuali.

Ne conseguirebbe che, in questo caso, l’illegittimità dell’atto conclusivo del procedimento, lesivo delle posizioni del richiedente, potrebbe far sorgere una responsabilità assimilabile a quella di tipo contrattuale (articoli 1218 e seguenti del codice civile) e non una responsabilità aquiliana “pura”. Quest’ultima presuppone, di regola, una lesione, dall’esterno, della posizione giuridica della parte interessata, derivante da condotte poste in essere da soggetti non legati da una precedente relazione giuridica, e non potrebbe riguardare una vicenda come quella procedimentale, caratterizzata dallo svolgimento di un complesso rapporto amministrativo, nel quale sono individuabili particolari obblighi di comportamento del soggetto pubblico.

Dalla parziale assimilazione tra la responsabilità contrattuale e quella conseguente all’adozione di atti amministrativi illegittimi deriverebbero importanti corollari applicativi in ordine alla disciplina concretamente applicabile, con particolare riguardo al termine di prescrizione, all’area del danno risarcibile, all’onere della prova dell’imputazione soggettiva. Infatti, nell’ambito della responsabilità contrattuale, spetta al debitore provare che l’inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile.

  1. La tesi, che potrebbe anche estendersi alla lesione di interessi oppositivi, purché realizzata all’esito un’attività amministrativa procedimentalizzata, viene basata su vari argomenti:
  1. l’articolo 1173 del codice civile stabilisce il carattere aperto delle fonti delle obbligazioni, individuate mediante rinvio alla generica categoria di “ogni atto o fatto idoneo”, secondo l’ordinamento giuridico;
  2. la legge sul procedimento amministrativo e la nuova formulazione dell’articolo 328 del codice penale valorizzano l’obbligo di concludere il procedimento, proprio in relazione alla tutela dell’interesse espresso dalla parte privata, imponendo all’amministrazione specifici doveri di protezione dell’affidamento dell’interessato;
  3. il rilievo di tale interesse è ulteriormente rafforzato dalla previsione dell’articolo 2 della legge n. 205/2000, in materia di processo speciale contro il silenzio della pubblica amministrazione;
  4. il modello dell’obbligazione di diritto civile assume valore pardigmatico per la disciplina di ogni rapporto giuridico, anche se contrassegnato dal rilievo dell’interesse pubblico; ciò emerge, in particolare, quando i doveri dell’amministrazione sono concretizzate in determinate regole di carattere procedimentale o sostanziale.
  5. in ogni caso, le regole contenute negli articoli 1173 e seguenti del codice civile assumono contenuto essenzialmente “tecnico” e sono quindi neutrali, in riferimento al contenuto delle posizioni giuridiche fatte valere;
  6. le recenti tendenze dell’ordinamento assecondano l’espansione di regole civilistiche al campo del diritto amministrativo, quanto meno con riguardo ai profili della responsabilità;
  7. proprio la progressiva attenuazione del rilievo della contrapposizione tra interessi legittimi e diritti soggettivi (per effetto della incidenza del diritto comunitario) giustifica l’operatività del modello obbligatorio anche nell’ambito dei rapporti amministrativi.
  8. La ricostruzione, particolarmente suggestiva, merita di essere valutata con attenzione.

Il rapporto amministrativo è certamente sottoposto ad una profonda evoluzione normativa, che ne evidenzia la progressiva convergenza verso schemi tratti da altri settori dell’ordinamento.

La massiccia influenza del diritto comunitario segna, anche nell’ordinamento interno, la marcata attenuazione della rigida alternativa tra il diritto civile ed il diritto amministrativo, proponendo delicati interrogativi sulla attuale configurazione della categoria dell’interesse legittimo e sulla sua distanza concettuale dal diritto soggettivo.

Ma ciò non autorizza a ritenere che il processo di assimilazione sia già completamente maturato nel diritto positivo. Il diniego illegittimo di un provvedimento ampliativo non può essere sempre qualificato come inadempimento dell’obbligo (contrattuale) all’adozione di un atto conforme all’interesse del richiedente.

Anche in assenza di momenti di discrezionalità, l’attività amministrativa risulta caratterizzata dal collegamento con l’interesse pubblico (modernamente inteso come ponderazione e sintesi dei vari interessi privati coinvolti) e non rappresenta mero adempimento di un obbligo puntuale verso il creditore privato.

  1. Altra linea interpretativa, sviluppando l’opinione di una autorevole dottrina, sostiene, poi, che la responsabilità dell’amministrazione per il rifiuto illegittimo di un provvedimento ampliativo presenta, almeno in alcuni ambiti, maggiori analogie con le ipotesi di responsabilità precontrattuale. È ipotizzabile assimilare il procedimento amministrativo alla fase formativa del contratto: la relazione tra le parti è preordinata alla adozione dell’atto conclusivo provvedimentale, ed è soggetta ai doveri di correttezza e di buona fede che regolano la fase delle trattative negoziali. Solo dopo l’adozione dell’atto possono individuarsi, eventualmente posizioni riconducibili al modello obbligatorio.

Peraltro, anche prima di tale momento, l’amministrazione, in quanto titolare del potere di regolare lo svolgimento del procedimento e di determinarne l’esito, è tenuta a conformare la propria attività alle regole imposte dall’ordinamento per la protezione degli affidamenti incolpevoli dei soggetti coinvolti nel procedimento.

In tale prospettiva, le conclusioni in tema di definizione dell’elemento soggettivo dell’illecito (e del relativo onere probatorio) possono mutare in modo apprezzabile.

È vero che la responsabilità precontrattuale è tuttora ricondotta dalla giurisprudenza al genus della responsabilità aquiliana (tra le tante, si veda Cass., sez. I, 29-04-1999, n. 4299).

Ma l’elemento soggettivo di tale forma di responsabilità si risolve, frequentemente, nell’accertamento della violazione di regole obiettive concernenti il rispetto dei criteri della correttezza e della buona fede. Dunque, anche l’inserimento sistematico nell’ambito della responsabilità precontrattuale potrebbe agevolare l’assolvimento dell’onere probatorio concernente l’elemento della colpa dell’amministrazione.

La tesi della responsabilità precontrattuale, poi, potrebbe avere ulteriori sviluppi seguendo le opinioni della dottrina volte ad inquadrare tale responsabilità nell’ambito di quella contrattuale. Detti indirizzi fanno riferimento ad elaborate e diversificate teorie, come quella che attribuisce al “contatto sociale” fra diversi soggetti dell’ordinamento, qualificato dagli articoli 1337 e 1338 del codice civile, l’idoneità a costituire autonoma fonte di obbligazione, ai sensi dell’articolo 1173 del codice civile.

  1. La Sezione ritiene che le più recenti elaborazioni dottrinarie relative alla fisionomia della responsabilità dell’amministrazione conseguente ad atti illegittimi possono essere condivise nella parte in cui, senza affermare la generalizzata operatività delle regole proprie della responsabilità contrattuale, forniscono utili criteri applicativi in ordine all’accertamento dell’elemento soggettivo dell’illecito.

Il “contatto” procedimentale, una volta innestato nell’ambito del rapporto amministrativo, caratterizzato da sviluppi istruttori e da un’ampia dialettica tra le parti sostanziali, impone al soggetto pubblico un preciso onere di diligenza, che lo rende garante del corretto sviluppo del procedimento e della sua legittima conclusione.

La misura della diligenza è dunque definita dalle regole che governano il procedimento amministrativo ed è attualizzata in funzione del concreto nesso tra le parti originato dall’iter provvedimentale e dal suo stato di attuazione.

La violazione di dette regole si traduce, in primo luogo, nella illegittimità dell’atto. Ma essa esprime anche l’indice, quanto meno presuntivo, della colpa del soggetto pubblico. Resta salva, ovviamente, la possibilità di dimostrare che, in concreto, l’accertata violazione della regola è derivata da vicende estranee al normale limite di esigibilità imposto al soggetto pubblico secondo i parametri generali desumibili dal sistema. In tal senso possono indicarsi i casi in cui è lo stesso destinatario dell’atto a fornire elementi istruttori inesatti, oppure il quadro normativo di riferimento presenta elementi di assoluta incertezza.

Dunque, proprio l’adeguata valorizzazione del rapporto procedimentale instaurato tra le parti consente di affermare che l’onere della prova dell’elemento soggettivo dell’illecito va ripartito tra le parti secondo criteri sostanzialmente corrispondenti a quelli codificati dall’articolo 1218 del codice civile. Detta conclusione, peraltro, resta circoscritta alla rilevanza del profilo della colpa, senza implicare la soluzione del più ampio problema della attuale fisionomia del rapporto amministrativo e della sua distanza concettuale dallo schema della obbligazione di diritto civile.

  1. La natura della responsabilità derivante dalla adozione di un atto illegittimo assume connotazioni particolari, concretamente avvicinabili all’inadempimento di una precedente obbligazione, tuttavia, quando l’invalidità dell’atto amministrativo deriva dal contrasto con precedenti atti convenzionali stipulati dall’amministrazione e dal soggetto interessato.

L’ipotesi si è verificata nel caso in esame. L’illegittimità del diniego della concessione edilizia e della norma pianificatoria a suo tempo adottata dal comune dipende dal contrasto con una precedente convenzione di lottizzazione, stipulata il 30 settembre 1977, da cui derivava la pretesa edificatoria della ricorrente.

Ora, in un’ipotesi del genere, non solo è evidente la colpa dell’amministrazione, che vanifica, ingiustificatamente, l’impegno consensualmente assunto insieme ai privati, ma è anche possibile ritenere che, in questo caso, si è in presenza di una responsabilità contrattuale e non aquiliana.

Infatti, i provvedimenti annullati con la sentenza passata in giudicato non solo sono illegittimi, ma si pongono anche in contrasto con i precisi impegni obbligatori assunti dal comune e con il correlato dovere di comportarsi secondo buona fede, anche nell’esercizio della successiva attività provvedimentale destinata a spiegare effetti sul rapporto amministrativo di derivazione consensuale. Il potere unilaterale dell’amministrazione di rivedere il contenuto della pianificazione urbanistica a suo tempo definita con la lottizzazione convenzionata, non poteva escludersi a priori, ma esso doveva esercitarsi tutelando adeguatamente l’affidamento del soggetto privato.

Del resto, occorre considerare che l’articolo 15 della legge n. 241/1990 afferma esplicitamente che gli accordi sostitutivi di provvedimenti amministrativi sono disciplinati dai principi codicistici in materia di obbligazioni.

In un contesto del genere spettava all’amministrazione dimostrare l’assenza di colpa nel proprio comportamento illegittimo, che viola non solo l’affidamento del privato, ma anche l’impegno concretizzato nel precedente atto convenzionale.

  1. Da ultimo, occorre considerare un ulteriore aspetto della concreta vicenda in contestazione.

Con la sentenza appellata, il tribunale ha ordinato al commissario ad acta la ricognizione degli elementi istruttori necessari per quantificare il danno da ritardo nel rilascio della concessione edilizia, con riferimento all’arco temporale compreso tra la conclusione dell’originario procedimento e l’effettivo rilascio del provvedimento concessorio.

Dunque, la pretesa risarcitoria fa riferimento non solo alle conseguenze patrimoniali derivanti dall’illegittimo provvedimento di reiezione della domanda di concessione edilizia, ma anche al diverso ed ulteriore pregiudizio economico direttamente riferito alla mancata attuazione del giudicato, intervenuto nel 1991.

Al riguardo, occorre puntualizzare che la pretesa all’attuazione del giudicato assume senz’altro la consistenza del diritto di credito, come è riconosciuto pacificamente dalla giurisprudenza, con riferimento alla individuazione del termine di prescrizione per la proposizione del ricorso per l’ottemperanza (C. Stato, sez. V, 15-03-1990, n. 307: l’azione nascente dal giudicato soggiace all’ordinario termine di prescrizione decennale stabilita dall’art. 2953 c.c.).

Pertanto, quanto meno con riguardo al ritardo maturato a partire dalla formazione del giudicato, la relativa pretesa assume carattere obbligatorio, con tutte le conseguenze riguardanti la disciplina della responsabilità (onere della prova dell’elemento soggettivo, termine di prescrizione, ecc.).

  1. Conclusivamente, si deve ritenere che nella presente vicenda spettava all’amministrazione dimostrare la mancanza di colpa nella propria condotta illegittima, lesiva degli interessi del privato.

Il comune non ha fornito alcun utile elemento in tal senso. Infatti, il generico riferimento alle difficoltà riguardanti l’attività interpretativa delle norme giuridiche e della ricostruzione fattuale delle circostanze risulta a tale scopo del tutto inadeguato.

Emerge, al contrario, una palese violazione dei doveri di correttezza e di buon andamento, considerando che le determinazioni consensualmente fissate con la parte interessata sono state disattese unilateralmente, senza adeguata considerazione dell’interesse pubblico e della sua prevalenza sulle aspettative del soggetto privato.

  1. Il comune appellante contesta anche i criteri indicati dal tribunale per quantificare i danni subiti dalla ricorrente, affermando che “andrebbero valutati e decurtati gli interessi attivi sulle somme non impegnate per la realizzazione dell’opera”. Inoltre, bisognerebbe considerare che “i vincoli dei piani regolatori hanno durata limitata nel tempo, per cui nulla osta” alla successiva realizzazione dell’opera.

La censura è infondata. Anche prescindendo dalla circostanza che il tribunale non ha fissato dei criteri, ma ha solo indicato gli elementi conoscitivi della relazione istruttoria affidata al commissario ad acta, le doglianze del comune non colgono nel segno.

La temporaneità dei vincoli non elide certo la sussistenza del danno da ritardo. Non si comprende, poi, perché il risarcimento del danno andrebbe decurtato degli interessi sulle somme non impegnate.

  1. Con l’appello incidentale, l’interessata contesta il capo della sentenza impugnata, riguardante la declaratoria di invalidità della concessione edilizia rilasciata dal commissario ad acta, in accoglimento della doglianza prospettata in primo grado dal comune.

A dire dell’interessata, il comune avrebbe dovuto proporre rituale e tempestiva impugnazione davanti al tribunale. La richiesta, proposta nella forma dell’incidente di esecuzione, deve ritenersi inammissibile.

La censura è infondata.

Il commissario ad acta costituisce organo ausiliario del giudice amministrativo che ha il compito di portare ad effettiva esecuzione la decisione del giudice stesso (C. Stato, sez. V, 12-06-1997, n. 639).

Quindi, poiché il commissario ad acta non è organo, sia pure straordinario, di amministrazione attiva, né un organo di controllo, avverso le sue determinazioni è ammissibile reclamo (proposto nelle forme del ricorso per l’esecuzione del giudicato) per verificarne la conformità alle statuizioni del giudicato.

  1. Al riguardo, la Sezione ha ripetutamente chiarito che dinanzi al giudice dell’ottemperanza possono essere contestate le erronee statuizioni del commissario ad acta non solo da parte del privato che assuma di essere stato leso dal comportamento inerte o elusivo della pubblica amministrazione, ma pure da parte di quest’ultima (i cui poteri sono stati attribuiti al commissario e che lamenta l’ingiustificata incidenza sui poteri istituzionali di cui essa resta titolare), nonché da parte del terzo (qualora questi lamenti un’indebita invasione dell’attività commissariale nella propria sfera giuridica), in quanto le erronee determinazioni commissariali devono essere eliminate dallo stesso giudice che ha nominato il commissario, non tollerando l’ordinamento alcuna lesione ai principi di legalità e di buon andamento dell’azione amministrativa (C. Stato, sez. V, 14-07-1997, n. 826; C. Stato, sez. V, 16-10-1997, n. 1152).

Infatti, il ricorso per ottemperanza è sempre esperibile avverso gli atti emanati dal commissario ad acta, il quale, agendo per investitura e in sostituzione del giudice dell’esecuzione, resta soggetto al controllo di quest’ultimo (C. Stato, sez. V, 29-01-1996, n. 102).

Ne deriva, quindi, la ritualità del ricorso proposto dal comune, in quanto:

Va aggiunto che il ricorso del comune non mira affatto ad evidenziare autonomi vizi del provvedimento concessorio, ma lamenta la corrispondenza dell’atto alle regole ed ai principi che governano l’attuazione giurisdizionale del giudicato, così come specificati, in concreto, nelle precedenti decisioni del tribunale.

  1. Nel merito, l’appellante incidentale sostiene che l’atto del commissario rispetta fedelmente le prescrizioni imposte dal tribunale, non potendosi attribuire rilevanza agli strumenti urbanistici sopravvenuti nel 1999.

Anche in questa parte, l’appello incidentale è infondato.

Il tribunale ha rilevato, correttamente, che il provvedimento concessorio non ha dato conto in alcun modo delle modifiche sopravvenute nel corso degli anni.

La decisione del tribunale non attribuisce alle sopravvenienze normative un valore ostativo all’attuazione del giudicato, ma ritiene necessario un approfondimento istruttorio volto a stabilire l’esatto rapporto tra il progetto edilizio dell’interessata e l’attuale assetto materiale e pianificatorio dell’area.

  1. Sotto altro profilo, l’appellante incidentale lamenta la violazione del giudicato di cui alla sentenza del tribunale n. 2827/1997. In tale sede il tribunale aveva riconosciuto la possibilità di modificare il progetto originario, adeguandolo alla mutata realtà di fatto.

Pertanto, la determinazione del commissario ad acta non potrebbe essere invalidata con riferimento ad una modificazione già preventivamente autorizzata dal tribunale.

La censura è infondata. La decisione appellata non mette in discussione, ma semmai rafforza, il principio della “flessibilità” del giudicato.

La pronuncia evidenzia, però, che la concessione non chiarisce in modo adeguato le ragioni della difformità e non dà conto di ulteriori sopravvenienze, medio tempore intervenute.

Dunque, non vi è alcuna violazione della precedente decisione adottata dallo stesso tribunale, ma si prospetta una corretta determinazione delle modalità attuative del giudicato.

  1. In definitiva, quindi, l’appello principale e l’appello incidentale devono essere respinti.

Le spese possono essere compensate.

Per Questi Motivi

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, respinge l’appello principale e l’appello incidentale, compensando le spese;

ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 24 aprile 2001, con l’intervento dei signori:

Pier giorgio Trovato – Presidente f.f.

Filoreto D’Agostino – Consigliere

Claudio Marchitiello – Consigliere

Marco Lipari – Consigliere Estensore

Vincenzo Borea – Consigliere

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE F.F.

f.to Marco Lipari f.to Pier Giorgio Trovato

IL SEGRETARIO

f.to Luciana Franchini

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

il………………06/08/2001…………………………

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

IL DIRIGENTE

f.to Pier Maria Costarelli

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Andrea Maso