Annullamento di aggiudicazione (con escussione della relativa escussione della cauzione provvisoria) o rescissione contrattuale (con escussione della relativa fideiussione definitiva) a seguito di informazioni prefettizie antimafia: nessun automatismo può sussistere tra la necessità di un soggetto di “vivere socialmente”, inserendosi nel tessuto sociale di residenza, e l’accompagnarsi con malavitosi, costituendo quest’ultimo corollario non necessario del “vivere sociale”, e vera e propria elettiva modalità comportamentale. _Di più. Intrattenersi a giocare a carte con un soggetto implica, necessariamente, che con il medesimo si intrattengano rapporti più profondi che quelli limitati ad una superficiale ed occasionale conoscenza._ Al contempo, recarsi in un circolo ricreativo (soprattutto ad accesso ristretto) frequentato da malavitosi, implica ben più che una normale manifestazione di esigenze socializzanti, ma (ove anche si voglia escludere il piacere di incontrare proprio quei malavitosi) la consapevole accettazione del “rischio” che con costoro si conversi, si discuta, si intrattengano rapporti, si entri in confidenza._Ciò tanto più ove gli incontri avvengano (come nel caso di specie) in un sito la cui frequentazione non rientra tra le necessità endemiche dell’essere umano e non aperto indiscriminatamente al pubblico

le c.d. informazioni prefettizie (da acquisire dalla stazione appaltante, dopo l’aggiudicazione provvisoria di appalto di lavori e ai fini dell’esercizio di eventuali atti di autotutela della p.a.) “possono essere ricondotte a tre tipi: quelle ricognitive di cause di per sè interdittive di cui all’art. 4 comma 4, d.lg. 8 agosto 1994 n. 490; quelle relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e la cui efficacia interdittiva discende da una valutazione del prefetto; quelle supplementari (o atipiche) la cui efficacia interdittiva scaturisce da una valutazione autonoma e discrezionale dell’amministrazione destinataria dell’informativa prevista dall’art. 1 septies, d.l. 6 settembre 1982 n. 629, conv. dalla l. 12 ottobre 1982 n. 726, ed aggiunto dall’art. 2 l. 15 novembre 1988 n. 486.” (Consiglio Stato , sez. IV, 15 novembre 2004, n. 7362).

Il criterio distintivo si rinviene nella circostanza che, diversamente dall’informativa tipica, che ha carattere interdittivo di ulteriori rapporti negoziali con le amministrazioni appaltanti una volta presenti i presupposti previsti dall’art. 4 d.lg. 490/1994 (sussistenza di cause di divieto o di sospensione – tentativi di infiltrazione tendenti a condizionare le scelte della società o dell’impresa), “l’informativa atipica non ha carattere interdittivo ma consente l’attivazione degli ordinari strumenti di discrezionalità nel valutare l’avvio o il prosieguo dei rapporti contrattuali alla luce dell’idoneità morale del partecipante alla gara di assumere la posizione di contraente con la p.a.; pertanto, essa non necessita di un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso e si basa su indizi ottenuti con l’ausilio di particolari indagini che possono risalire anche a eventi verificatisi a distanza di tempo perché riguardano la valutazione sull’idoneità morale del concorrente e non producono l’esclusione automatica dalla gara.”(Consiglio Stato , sez. V, 31 dicembre 2007, n. 6902).

Le informative del genere di quelle per cui è causa rappresentano quindi una sensibile anticipazione della soglia dell’autotutela amministrativa a fronte di possibili ingerenze criminali nella propria attività: da tale impostazione, si è fatta discendere la conseguenza che “l’informativa prefettizia antimafia di cui all’art. 4 del d.lg. 8 agosto 1994 n. 490 e all’art. 10, d.p.r. 3 giugno 1998 n. 252 è espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo del contrasto con la criminalità organizzata, e prescinde quindi da rilevanze probatorie tipiche del diritto penale, per cercare di cogliere l’affidabilità dell’impresa affidataria dei lavori complessivamente intesa.” (Consiglio Stato , sez. VI, 17 maggio 2006, n. 2867)

Si è puntualizzato, in proposito, infatti, che “in forza del combinato disposto dell’art. 4 d.lg. 8 agosto 1994, n. 490 e dell’art. 1 septies d.l. 6 settembre 1982, n. 629, conv. dalla l. 12 ottobre 1982, n. 726, si deve ritenere che legittimamente l’amministrazione erogatrice, nell’esercizio dei poteri discrezionali autonomamente assentiti dalla legge, disponga la revoca di un’aggiudicazione provvisoria di lavori di completamento di un’azienda ospedaliera nei confronti di una società a carico della quale risultino, sulla scorta delle comunicazioni prefettizie, pericoli di condizionamento da parte della criminalità organizzata, pur se nelle informative stesse si affermi che gli elementi acquisiti non consentono, allo stato, una valutazione certa con riguardo la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare scelte ed indirizzi della società stessa. Le informative prefettizie atipiche sono atti non vincolanti che lasciano spazio ad una discrezionale valutazione dell’amministrazione aggiudicatrice che, per ragione di pubblico interesse può agire con un atto di autotutela.” (Consiglio Stato , sez. IV, 01 marzo 2001, n. 1148).

Con il ricorso di primo grado, era stato chiesto dall’ odierna parte appellante l’annullamento della nota prot. n. 24228 del 2.12.2008 con la quale era stata informata della risoluzione di diritto del rapporto contrattuale instaurato l’1.9.2008, a seguito della comunicazione della Prefettura di Caserta del 3.11.2008 resa ai sensi dell’art. 10 del dPR 252/1998 e dell’art. 4 del d.lgs. 490/1994, con cui il Prefetto della Provincia di Caserta ha fornito alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Missione amministrativo-legale- le informazioni ai sensi degli artt. 10 dPR n. 252/1998 e 4 d.lgs. n. 490/1994, e di tutti gli atti preordinati, connessi e consequenziali.

Con successivi motivi aggiunti essa aveva proposto ulteriori censure all’esito del deposito in giudizio della informativa prefettizia e dei relativi atti istruttori.

Aveva prospettato censure procedimentali e sostanziali, denunciando altresì il malgoverno delle disposizioni di legge sottese all’azione amministrativa ed il contrasto con i principi costituzionali della interpretazione che di tali disposizioni aveva reso la Prefettura.

Più in particolare, le doglianze articolate in primo grado erano volte a far risaltare il vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione, d’istruttoria e dei presupposti che avrebbero inficiato la validità della nota prefettizia in questione.

L’appellante ha posto in luce il proprio stato d’incensuratezza, alla stregua delle risultanze dei certificati generali dei carichi pendenti e del casellario giudiziale.

Ha inoltre sottolineato che, in precedenza, era stata emessa nei propri confronti un’altra nota, di identico tenore, e che il ricorso avverso detta precedente nota prefettizia (n. 693/12b del 21 giugno 2005) era stato accolto dal Consiglio di Stato, Sezine VI, con la decisione del 7 marzo 2007, n. 1056, che aveva osservato che “la circostanza […] che il titolare della impresa sia imparentato (tramite la moglie) con esponenti della camorra non può essere di per sé prova sufficiente di infiltrazione mafiosa nella gestione dell’impresa ove a tale dato anagrafico non si accompagni una acclarata frequentazione e comunanza di interessi con tali ambienti”.

Il Giudice d’appello, del pari, con la citata decisione, aveva ritenuto inidonea a tal fine la vicenda del coinvolgimento dell’interessato in una faida camorristica, in quanto risalente a diciotto anni addietro.

Il provvedimento “nuovo” oggetto di impugnazione, si limitava a riproporre elementi già vagliati ed oggetto della decisione demolitoria suindicata: l’azione amministrativa era gravemente viziata ed illegittima.

Con la sentenza in epigrafe il Tar, premesso un breve excursus sulla legislazione in materia, dopo avere disatteso l’eccezione di incompetenza territoriale funzionale sollevata, ha respinto l’impugnazione avendo rilevato che all’esito dei più recenti accertamenti compiuti dalle Forze dell’ordine, il quadro indiziario risultava significativamente aggravato dalla dimostrazione della esistenza di sintomatici rapporti di frequentazione con elementi legati alla criminalità organizzata.

Ciò perché l’interessato era stato rinvenuto in un circolo privato – e non in un pubblico esercizio – mentre era “intento a giocare a carte” con soggetti gravati da precedenti di polizia specifici ovvero consanguinei di esponenti di assoluto spicco di un clan camorristico: detta circostanza appariva indubbiamente significativa di un pericoloso rapporto di familiarità e confidenza con persone (quali il fratello di un capoclan ben noto alla cronaca giudiziaria) di cui difficilmente poteva ignorarsi la qualità nel contesto proprio di un piccolo comune e, comunque, nello specifico contesto di un circolo.

L’odierna parte appellante ha censurato la predetta sentenza chiedendone l’annullamento in quanto viziata da errori di diritto ed illegittima; ha rammentato che il nucleo familiare del signor P. era composto da soggetti mai condannati e neppure sospettati di appartenere a consorterie criminali, rilevando che i primi Giudici si erano acriticamente rifatti alle valutazioni dell’amministrazione.

Queste ultime, apoditticamente formulate, non possedevano valenza dimostrativa di alcun coinvolgimento in affari criminali dell’appellante: l’unico indizio in sfavor riposava nella circostanza che il P. Raffaele era stato rinvenuto all’interno di un circolo ricreativo ove si trovavano anche persone con precedenti di polizia od imparentate con famiglie camorristiche.

L’argomentare dell’amministrazione postulava, secondo la critica rivoltale da parte appellante, (pag. 10 del ricorso in appello) che un imprenditore operante nel meridione abbandonasse ogni possibilità di vivere “socialmente” (frequentando ad esempio, circoli ricreativi, o bar), ovvero si rassegnasse ad essere marchiato quale soggetto contiguo a consorterie criminali (o a rischio di “infiltrazione”).

Parte appellante ha ribadito e puntualizzato le suindicate censure depositando una articolata memoria e criticando l’operato dell’amministrazione che aveva “sommato” gli indizi già oggetto della precedente informativa recepita dalla nota prefettizia annullata dal Consiglio di Stato nel 2007, con quelli successivamente acquisiti ed aveva elevato a dignità di “indizio di frequentazione” una occasionale compresenza di più soggetti in un luogo aperto al pubblico.

Qual è il parere dell’adito giudice di appello del Consiglio di Stato?

Il ricorso in appello è infondato e deve essere respinto.

Sotto il profilo del grado di approfondimento probatorio che deve essere ad esse sotteso, v’è concordanza di vedute in giurisprudenza nel ritenere che “l’art. 4, d.lg. 8 agosto 1994 n. 490 costituisce una misura di tipo preventivo intesa a contrastare l’azione del crimine organizzato poiché dà rilievo, ai fini ostativi della contrattazione degli appalti di opere pubbliche, anche agli elementi che costituiscono solo indizi (che comunque non devono costituire semplici sospetti o congetture privi di riscontri fattuali) del rischio di coinvolgimento associativo con la criminalità organizzata delle imprese partecipanti al procedimento di evidenza pubblica.” (Consiglio Stato , sez. VI, 02 ottobre 2007, n. 5069).

Non è superfluo evidenziare il rapporto di strettissima correlazione sussistente tra il grado di plausibilità richiesto e l’elemento finalistico cui esse sono destinate.

Tale aspetto è stato colto dalla pronuncia della Sezione che di seguito si riporta, secondo cui “l’informativa prefettizia di cui agli art. 4 d.lg. 29 ottobre 1994 n. 490 e 10 d.P.R. 3 giugno 1998 n. 252, è funzionale alla peculiare esigenza di mantenere un atteggiamento intransigente contro rischi di infiltrazione mafiosa, idonei a condizionare le scelte delle imprese chiamate a stipulare contratti con la p.a., determinando l’esclusione dell’imprenditore, sospettato di detti legami, dal mercato dei pubblici appalti e, più in generale, dalla stipula di tutti quei contratti e dalla fruizione di tutti quei benefici, che presuppongono la partecipazione di un soggetto pubblico e l’utilizzo di risorse della collettività. La fase istruttoria del procedimento finalizzato a comunicare la presenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi di un’impresa, si concreta essenzialmente nell’acquisizione di tutte le informazioni di cui le autorità di pubblica sicurezza sono in possesso al fine di effettuare, sulla base di tali risultanze, una obiettiva valutazione sulla possibilità di un eventuale utilizzo distorto dei finanziamenti pubblici destinati ad iniziative private o delle risorse pubbliche devolute al settore degli appalti pubblici (utilizzo, che la normativa di settore mira appunto ad evitare). A tal fine, se non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, non possono tuttavia ritenersi sufficienti fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, essendo pur sempre richiesta l’indicazione di circostanze obiettivamente sintomatiche di connessioni o collegamenti con le predette associazioni.” (Consiglio Stato , sez. VI, 17 luglio 2006, n. 4574).

Il parametro valutativo, quindi, non è quello della “certezza”, ma quello della “qualificata probabilità”.

L’art. 10 del DPR n. 252/1998, poi, stabilisce, al comma VII, che “ Ai fini di cui al comma 2 le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa sono desunte:

a) dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluno dei delitti di cui agli articoli 629, 644, 648-bis, e 648-ter del codice penale, o dall’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale;

b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di cui agli articoli 2-bis, 2-ter, 3-bis e 3-quater della legge 31 maggio 1965, n. 575;

c) dagli accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell’interno, ovvero richiesti ai prefetti competenti per quelli da effettuarsi in altra provincia.”

La tipizzazione legislativa delle “fonti” dalle quali è possibile trarre il convincimento in parola, risponde ad un criterio di tassatività posto quale elementare presidio di tutela per i terzi che aspirino a contrattare con le amministrazioni.

Ma tale tipizzazione, non intacca la circostanza che il giudizio deve rispondere pur sempre a criteri probabilistici.

Si è condivisibilmente affermato, a tale proposito, che “nel rendere le informazioni richieste dal comune ai sensi dell’art. 10 comma 7 lett. c) d.P.R. 3 giugno 1998 n. 252, il prefetto non deve basarsi su specifici elementi, ma deve effettuare la propria valutazione sulla scorta di uno specifico quadro indiziario, ove assumono rilievo preponderante i fattori induttivi della non manifesta infondatezza che i comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche amministrazioni. L’ampiezza dei poteri di accertamento, giustificata dalla finalità preventiva sottesa al provvedimento, giustifica che il prefetto possa ravvisare l’emergenza di tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé privi dell’assoluta certezza – quali una condanna non irrevocabile, collegamenti parentali con soggetti malavitosi, dichiarazioni di pentiti – ma che, nel loro coacervo, siano tali da fondare un giudizio di possibilità che l’attività d’impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata per la presenza, nei centri decisionali, di soggetti legati ad organizzazioni malavitose.”(Consiglio di Stato , sez. VI, 02 agosto 2006, n. 4737)

Tale ultimo profilo pare al Collegio rivestire portata nodale: non si postula, quale condizione per l’applicabilità delle disposizioni in parola, che ci si trovi al cospetto di una impresa “criminale” (posseduta/gestita/controllata da soggetti dediti ad attività criminali, cioè).

Ma si richiede che vi sia la “possibilità” che essa possa, “anche in via indiretta” favorire la criminalità.

Ciò premesso, deve rilevarsi che -sotto il profilo della astratta legittimazione a fondare il giudizio censurato dall’appellante – non sembra alla Sezione che siano stati travalicati i limiti enucleati dalla giurisprudenza.

E’ invero incontestabile che con la precedente pronuncia demolitoria della Sezione si sia affermato un principio di civiltà giuridica a tenore del quale la semplice sussistenza di rapporti parentali non può pregiudicare il libero dispiegarsi dell’attività imprenditoriale, direttamente tutelata ex art. 41 della Costituzione, ed indirettamente ex art. 2 della Carta Fondamentale medesima.

Tali precetti sono (nuovamente) invocati dall’appellante, a comprova della illegittimità dell’azione amministrativa in relazione alla nuova informativa redatta sulla scorta dei nuovi accertamenti delle forze dell’ordine che registrarono un significativo contatto, a scopo ludico, tra il titolare della società appellante e soggetti pregiudicati e sospettati di essere parte attiva in consorterie criminali operanti sul territorio campano.

Dette censure non persuadono.

Invero è estremamente suggestiva la tesi affermata dall’appellante secondo cui si trattava di contatto determinato dalla residenza nel medesimo (piccolo) centro urbano, e rappresenterebbero il corollario dell’inserimento di un soggetto nel contesto sociale.

E’ consapevole il Collegio della estrema difficoltà (talvolta ben presente anche alla giurisprudenza penalistica, che pure si avvale di assai più penetranti strumenti investigativi atti a scandagliare portata, significato, e causale, di tali contatti) di esattamente inquadrare tali condotte, e di attribuire ad esse univoco significato.

E purtuttavia, il compito del giudice amministrativo, in subiecta materia, non riposa nell’accertare la valenza ultima di tali contatti (tematica all’evidenza sottratta alla giurisdizione amministrativa).

Premesso che rientra nella sfera discrezionale dell’amministrazione prefettizia in primis e della stazione appaltante, eventualmente, il vaglio probabilistico sul pericolo di infiltrazione, al giudice amministrativo pertiene unicamente il compito di verificare se l’esercizio di tale potere discrezionale sia stato rispondente a criteri di logica e razionalità, censurandolo eventualmente ove emergano profili di abnormità valutativa o travisamento del fatto.

Tali profili patologici sono all’evidenza insussistenti nel caso di specie.

Merita di essere segnalata la decisione numero 7777 dell’ 11 dicembre 2009, emessa dal Consiglio di Stato ed in particolare il seguente passaggio

Un conforto di non poco momento sulla esattezza della azione spiegata dall’amministrazione, si rinviene nella giurisprudenza di merito e di legittimità penalistica formatasi in materia di misure di prevenzione, i cui approdi appaiono trasponibili al caso di specie.

Si è all’uopo affermato, da parte della Corte di Cassazione, che “in tema di misure di prevenzione, le prescrizioni accessorie al provvedimento impositivo della sorveglianza speciale, indicate al comma 3 dell’art. 5 l. n. 1423 del 1956 e soggette, in caso di inosservanza, alla sanzione di cui al comma 1 del successivo art. 9, sono costituite dal generico obbligo di “non dare ragione di sospetti” e dallo specifico divieto di “associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne”. Ne consegue che, pur al di fuori di relazioni con carattere di stabilità e di comportamenti connotati di abitualità, l’incontro con pregiudicati può integrare il reato purché assuma carattere di ripetitività tale da cagionare allarme nell’autorità di p.s., non essendo ragionevolmente assoggettabile a sanzione una condotta del tutto isolata e dipendente da normali e non programmate vicende della vita di relazione. (Nella specie la Corte ha ritenuto che fosse stata correttamente affermata la responsabilità dell’imputato in ragione della frequenza degli incontri i quali integrano la violazione solo nel loro insieme e per effetto della reiterazione, ma non isolatamente considerati).” (Cassazione penale , sez. I, 22 settembre 1999, n. 13886).

La giurisprudenza di merito penale si è sempre uniformata a tale autorevole indicazione, ponendo l’accento sulla frequenza e non sporadicità degli incontri, e sulla necessità che la condotta del prevenuto sia valutata in maniera unitaria (si veda, in proposito, tra le tante, Uff. Indagini preliminari Bari, 22 febbraio 2008, ma anche Tribunale Trapani, 26 giugno 2007).

Al contempo, con riferimento alle conseguenze che possono ridondare su un esercizio commerciale, ove frequentato da malavitosi,è bene rammentare che in un recente passato la giurisprudenza amministrativa ha rilevato che l’art. 100 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, rimasto in vigore anche dopo la promulgazione della legge 25 agosto 1991, n. 287 regolatrice dell’attività dei pubblici esercizi, prevede il potere del questore di sospendere la licenza di pubblico esercizio quando nell’esercizio medesimo siano avvenuti tumulti o gravi disordini, oppure esso sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose, oppure esso costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, per la moralità pubblica e il buon costume o per la sicurezza dei cittadini. Il provvedimento ex art. 100, r.d. 773/1931 ha prevalente natura di misura cautelare, con finalità di prevenzione rispetto ai pericoli che possono minacciare l’ordine e la sicurezza pubblica.

Esso prescinde, pertanto, dall’accertamento della colpa del titolare del pubblico esercizio (T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 21 ottobre 2002, n. 6521), essendo prevalente la finalità dissuasiva della frequentazione malavitosa indotta dal periodo di chiusura obbligatoria dell’esercizio stesso (T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, 18 agosto 2003, n. 567).

Analoga valutazione unitaria e sistematica è stata correttamente resa dall’amministrazione.

Il ricorso in appello non tiene conto di tale necessità di valutazione unitaria e globale, ed ne propone il superamento, tentando di isolare e valutare singolarmente le condotte dell’appellante, del pari non fornendo convincenti spunti atti a contrastare la valutazione probabilistica di sussistenza del pericolo infiltrativo sostenuta dall’amministrazione.

Invero – è bene ricordarlo- il “supplemento” di elementi dal quale è scaturita la informazione prefettizia oggetto della odierna disamina si “salda” a quello già contenuto nella prima informativa prefettizia annullata dal Consiglio di Stato con la decisione della Sezione VI, del 7 marzo 2007, n. 1056, che dava atto che il sig. P. Raffaele, socio accomandatario della S.a.s. ricorrente, era imparentato con un esponente di spicco di un clan camorristico, che nel 1988 era stato attinto da colpi da arma da fuoco nel corso di un agguato ove era deceduto un pregiudicato suo amico, e che risultava avere contatti con esponenti del clan camorristico come evidenziato dalla documentazione del procedimento penale presso il GIP, Sez. II, del Tribunale di Napoli, denominato “Spartacus”.

Detti elementi, furono ritenuti, dalla decisione sopracitata, “inidonei a comprovare la pretesa contiguità con ambienti camorristici, trattandosi di una vicenda che risale al 1988, e dunque lontano ben diciotto anni dalla adozione del provvedimento impugnato”.

Gli odierni elementi fattuali consentono, ed anzi impongono, di attualizzare i pregressi dati, con la recente contiguità e frequentazione di cui si è dianzi dato contezza.

Né appare condivisibile la tesi dell’appellante secondo cui i pregressi elementi valutativi, in quanto “coperti” dal giudicato annullatorio, non sarebbero (più) esaminabili dall’amministrazione.

Viceversa, il giudicato annullatorio attinge unicamente il provvedimento siccome fondato sugli elementi suindicati: questi ultimi furono ritenuti insufficienti a fondare il pericolo di infiltrazione camorristica; nulla preclude però che i medesimi elementi possano essere nuovamente valutati, unitamente agli altri medio tempore accertati, e forniscano, come nel caso di specie, un quadro probabilistico legittimante l’applicazione della misura.

Il ricorso in appello non contiene elementi atti a scalfire tale valutazione (fatta propria dai primi giudici) e deve, pertanto, essere respinto con conseguente conferma dell’appellata decisione.

A cura di Sonia LAzzini

N. 07777/2009 REG.DEC.

N. 03514/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 3514 del 2009, proposto da:
Euro Trasporti Ricorrente 2000 di P. Raffaele & C. Sas, rappresentato e difeso dall’avv. Luigi Ricciardelli, con domicilio eletto presso Renato Pedicini in Roma, via F. D’Ovidio, 83;

contro

Presidenza del Coniglio dei Ministri –Sottosegretariato Di Stato all’ Emergenza Rifiuti, Ufficio Territoriale del Governo di Caserta, Prefettura di Caserta, non costituitisi in giudizio;

per la riforma, previa sospensione della esecutività,

della sentenza del TAR CAMPANIA – Sede di NAPOLI – Sezione I n. 01640/2009;

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 10 novembre 2009 il Consigliere Fabio Taormina e udito per la parte appellante l’Avvocato Ricciardelli;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO

Con il ricorso di primo grado, era stato chiesto dall’ odierna parte appellante l’annullamento della nota prot. n. 24228 del 2.12.2008 con la quale era stata informata della risoluzione di diritto del rapporto contrattuale instaurato l’1.9.2008, a seguito della comunicazione della Prefettura di Caserta del 3.11.2008 resa ai sensi dell’art. 10 del dPR 252/1998 e dell’art. 4 del d.lgs. 490/1994, con cui il Prefetto della Provincia di Caserta ha fornito alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Missione amministrativo-legale- le informazioni ai sensi degli artt. 10 dPR n. 252/1998 e 4 d.lgs. n. 490/1994, e di tutti gli atti preordinati, connessi e consequenziali.

Con successivi motivi aggiunti essa aveva proposto ulteriori censure all’esito del deposito in giudizio della informativa prefettizia e dei relativi atti istruttori.

Aveva prospettato censure procedimentali e sostanziali, denunciando altresì il malgoverno delle disposizioni di legge sottese all’azione amministrativa ed il contrasto con i principi costituzionali della interpretazione che di tali disposizioni aveva reso la Prefettura.

Più in particolare, le doglianze articolate in primo grado erano volte a far risaltare il vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione, d’istruttoria e dei presupposti che avrebbero inficiato la validità della nota prefettizia in questione.

L’appellante ha posto in luce il proprio stato d’incensuratezza, alla stregua delle risultanze dei certificati generali dei carichi pendenti e del casellario giudiziale.

Ha inoltre sottolineato che, in precedenza, era stata emessa nei propri confronti un’altra nota, di identico tenore, e che il ricorso avverso detta precedente nota prefettizia (n. 693/12b del 21 giugno 2005) era stato accolto dal Consiglio di Stato, Sezine VI, con la decisione del 7 marzo 2007, n. 1056, che aveva osservato che “la circostanza […] che il titolare della impresa sia imparentato (tramite la moglie) con esponenti della camorra non può essere di per sé prova sufficiente di infiltrazione mafiosa nella gestione dell’impresa ove a tale dato anagrafico non si accompagni una acclarata frequentazione e comunanza di interessi con tali ambienti”.

Il Giudice d’appello, del pari, con la citata decisione, aveva ritenuto inidonea a tal fine la vicenda del coinvolgimento dell’interessato in una faida camorristica, in quanto risalente a diciotto anni addietro.

Il provvedimento “nuovo” oggetto di impugnazione, si limitava a riproporre elementi già vagliati ed oggetto della decisione demolitoria suindicata: l’azione amministrativa era gravemente viziata ed illegittima.

Con la sentenza in epigrafe il Tar, premesso un breve excursus sulla legislazione in materia, dopo avere disatteso l’eccezione di incompetenza territoriale funzionale sollevata, ha respinto l’impugnazione avendo rilevato che all’esito dei più recenti accertamenti compiuti dalle Forze dell’ordine, il quadro indiziario risultava significativamente aggravato dalla dimostrazione della esistenza di sintomatici rapporti di frequentazione con elementi legati alla criminalità organizzata.

Ciò perché l’interessato era stato rinvenuto in un circolo privato – e non in un pubblico esercizio – mentre era “intento a giocare a carte” con soggetti gravati da precedenti di polizia specifici ovvero consanguinei di esponenti di assoluto spicco di un clan camorristico: detta circostanza appariva indubbiamente significativa di un pericoloso rapporto di familiarità e confidenza con persone (quali il fratello di un capoclan ben noto alla cronaca giudiziaria) di cui difficilmente poteva ignorarsi la qualità nel contesto proprio di un piccolo comune e, comunque, nello specifico contesto di un circolo.

L’odierna parte appellante ha censurato la predetta sentenza chiedendone l’annullamento in quanto viziata da errori di diritto ed illegittima; ha rammentato che il nucleo familiare del signor P. era composto da soggetti mai condannati e neppure sospettati di appartenere a consorterie criminali, rilevando che i primi Giudici si erano acriticamente rifatti alle valutazioni dell’amministrazione.

Queste ultime, apoditticamente formulate, non possedevano valenza dimostrativa di alcun coinvolgimento in affari criminali dell’appellante: l’unico indizio in sfavor riposava nella circostanza che il P. Raffaele era stato rinvenuto all’interno di un circolo ricreativo ove si trovavano anche persone con precedenti di polizia od imparentate con famiglie camorristiche.

L’argomentare dell’amministrazione postulava, secondo la critica rivoltale da parte appellante, (pag. 10 del ricorso in appello) che un imprenditore operante nel meridione abbandonasse ogni possibilità di vivere “socialmente” (frequentando ad esempio, circoli ricreativi, o bar), ovvero si rassegnasse ad essere marchiato quale soggetto contiguo a consorterie criminali (o a rischio di “infiltrazione”).

Parte appellante ha ribadito e puntualizzato le suindicate censure depositando una articolata memoria e criticando l’operato dell’amministrazione che aveva “sommato” gli indizi già oggetto della precedente informativa recepita dalla nota prefettizia annullata dal Consiglio di Stato nel 2007, con quelli successivamente acquisiti ed aveva elevato a dignità di “indizio di frequentazione” una occasionale compresenza di più soggetti in un luogo aperto al pubblico.

Alla camera di consiglio del 12 maggio 2009 fissata per l’esame dell’istanza cautelare di sospensione della esecutività della sentenza appellata la Sezione, con l’ordinanza n. 2379/2009, ha respinto l’appello cautelare ritenendo che, sulla scorta di un prima valutazione, non sussistessero i presupposti per l’accoglimento dell’istanza cautelare.

DIRITTO

Il ricorso in appello è infondato e deve essere respinto.

Appare opportuno fare precedere la disamina delle doglianze prospettate dall’appellante da una breve ricognizione degli orientamenti giurisprudenziali di recente espressi in materia, nella convinzione che da essi possano immediatamente trarsi utili spunti alla risoluzione dei quesiti per cui è processo.

In particolare, il Collegio condivide pienamente l’impostazione classificatoria seguita dalla giurisprudenza amministrativa secondo la quale le c.d. informazioni prefettizie (da acquisire dalla stazione appaltante, dopo l’aggiudicazione provvisoria di appalto di lavori e ai fini dell’esercizio di eventuali atti di autotutela della p.a.) “possono essere ricondotte a tre tipi: quelle ricognitive di cause di per sè interdittive di cui all’art. 4 comma 4, d.lg. 8 agosto 1994 n. 490; quelle relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e la cui efficacia interdittiva discende da una valutazione del prefetto; quelle supplementari (o atipiche) la cui efficacia interdittiva scaturisce da una valutazione autonoma e discrezionale dell’amministrazione destinataria dell’informativa prevista dall’art. 1 septies, d.l. 6 settembre 1982 n. 629, conv. dalla l. 12 ottobre 1982 n. 726, ed aggiunto dall’art. 2 l. 15 novembre 1988 n. 486.” (Consiglio Stato , sez. IV, 15 novembre 2004, n. 7362).

Il criterio distintivo si rinviene nella circostanza che, diversamente dall’informativa tipica, che ha carattere interdittivo di ulteriori rapporti negoziali con le amministrazioni appaltanti una volta presenti i presupposti previsti dall’art. 4 d.lg. 490/1994 (sussistenza di cause di divieto o di sospensione – tentativi di infiltrazione tendenti a condizionare le scelte della società o dell’impresa), “l’informativa atipica non ha carattere interdittivo ma consente l’attivazione degli ordinari strumenti di discrezionalità nel valutare l’avvio o il prosieguo dei rapporti contrattuali alla luce dell’idoneità morale del partecipante alla gara di assumere la posizione di contraente con la p.a.; pertanto, essa non necessita di un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso e si basa su indizi ottenuti con l’ausilio di particolari indagini che possono risalire anche a eventi verificatisi a distanza di tempo perché riguardano la valutazione sull’idoneità morale del concorrente e non producono l’esclusione automatica dalla gara.”(Consiglio Stato , sez. V, 31 dicembre 2007, n. 6902).

Le informative del genere di quelle per cui è causa rappresentano quindi una sensibile anticipazione della soglia dell’autotutela amministrativa a fronte di possibili ingerenze criminali nella propria attività: da tale impostazione, si è fatta discendere la conseguenza che “l’informativa prefettizia antimafia di cui all’art. 4 del d.lg. 8 agosto 1994 n. 490 e all’art. 10, d.p.r. 3 giugno 1998 n. 252 è espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo del contrasto con la criminalità organizzata, e prescinde quindi da rilevanze probatorie tipiche del diritto penale, per cercare di cogliere l’affidabilità dell’impresa affidataria dei lavori complessivamente intesa.” (Consiglio Stato , sez. VI, 17 maggio 2006, n. 2867)

Si è puntualizzato, in proposito, infatti, che “in forza del combinato disposto dell’art. 4 d.lg. 8 agosto 1994, n. 490 e dell’art. 1 septies d.l. 6 settembre 1982, n. 629, conv. dalla l. 12 ottobre 1982, n. 726, si deve ritenere che legittimamente l’amministrazione erogatrice, nell’esercizio dei poteri discrezionali autonomamente assentiti dalla legge, disponga la revoca di un’aggiudicazione provvisoria di lavori di completamento di un’azienda ospedaliera nei confronti di una società a carico della quale risultino, sulla scorta delle comunicazioni prefettizie, pericoli di condizionamento da parte della criminalità organizzata, pur se nelle informative stesse si affermi che gli elementi acquisiti non consentono, allo stato, una valutazione certa con riguardo la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare scelte ed indirizzi della società stessa. Le informative prefettizie atipiche sono atti non vincolanti che lasciano spazio ad una discrezionale valutazione dell’amministrazione aggiudicatrice che, per ragione di pubblico interesse può agire con un atto di autotutela.” (Consiglio Stato , sez. IV, 01 marzo 2001, n. 1148).

Sotto il profilo del grado di approfondimento probatorio che deve essere ad esse sotteso, v’è concordanza di vedute in giurisprudenza nel ritenere che “l’art. 4, d.lg. 8 agosto 1994 n. 490 costituisce una misura di tipo preventivo intesa a contrastare l’azione del crimine organizzato poiché dà rilievo, ai fini ostativi della contrattazione degli appalti di opere pubbliche, anche agli elementi che costituiscono solo indizi (che comunque non devono costituire semplici sospetti o congetture privi di riscontri fattuali) del rischio di coinvolgimento associativo con la criminalità organizzata delle imprese partecipanti al procedimento di evidenza pubblica.” (Consiglio Stato , sez. VI, 02 ottobre 2007, n. 5069).

Non è superfluo evidenziare il rapporto di strettissima correlazione sussistente tra il grado di plausibilità richiesto e l’elemento finalistico cui esse sono destinate.

Tale aspetto è stato colto dalla pronuncia della Sezione che di seguito si riporta, secondo cui “l’informativa prefettizia di cui agli art. 4 d.lg. 29 ottobre 1994 n. 490 e 10 d.P.R. 3 giugno 1998 n. 252, è funzionale alla peculiare esigenza di mantenere un atteggiamento intransigente contro rischi di infiltrazione mafiosa, idonei a condizionare le scelte delle imprese chiamate a stipulare contratti con la p.a., determinando l’esclusione dell’imprenditore, sospettato di detti legami, dal mercato dei pubblici appalti e, più in generale, dalla stipula di tutti quei contratti e dalla fruizione di tutti quei benefici, che presuppongono la partecipazione di un soggetto pubblico e l’utilizzo di risorse della collettività. La fase istruttoria del procedimento finalizzato a comunicare la presenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi di un’impresa, si concreta essenzialmente nell’acquisizione di tutte le informazioni di cui le autorità di pubblica sicurezza sono in possesso al fine di effettuare, sulla base di tali risultanze, una obiettiva valutazione sulla possibilità di un eventuale utilizzo distorto dei finanziamenti pubblici destinati ad iniziative private o delle risorse pubbliche devolute al settore degli appalti pubblici (utilizzo, che la normativa di settore mira appunto ad evitare). A tal fine, se non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, non possono tuttavia ritenersi sufficienti fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, essendo pur sempre richiesta l’indicazione di circostanze obiettivamente sintomatiche di connessioni o collegamenti con le predette associazioni.” (Consiglio Stato , sez. VI, 17 luglio 2006, n. 4574).

Il parametro valutativo, quindi, non è quello della “certezza”, ma quello della “qualificata probabilità”.

L’art. 10 del DPR n. 252/1998, poi, stabilisce, al comma VII, che “ Ai fini di cui al comma 2 le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa sono desunte:

a) dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluno dei delitti di cui agli articoli 629, 644, 648-bis, e 648-ter del codice penale, o dall’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale;

b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di cui agli articoli 2-bis, 2-ter, 3-bis e 3-quater della legge 31 maggio 1965, n. 575;

c) dagli accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell’interno, ovvero richiesti ai prefetti competenti per quelli da effettuarsi in altra provincia.”

La tipizzazione legislativa delle “fonti” dalle quali è possibile trarre il convincimento in parola, risponde ad un criterio di tassatività posto quale elementare presidio di tutela per i terzi che aspirino a contrattare con le amministrazioni.

Ma tale tipizzazione, non intacca la circostanza che il giudizio deve rispondere pur sempre a criteri probabilistici.

Si è condivisibilmente affermato, a tale proposito, che “nel rendere le informazioni richieste dal comune ai sensi dell’art. 10 comma 7 lett. c) d.P.R. 3 giugno 1998 n. 252, il prefetto non deve basarsi su specifici elementi, ma deve effettuare la propria valutazione sulla scorta di uno specifico quadro indiziario, ove assumono rilievo preponderante i fattori induttivi della non manifesta infondatezza che i comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche amministrazioni. L’ampiezza dei poteri di accertamento, giustificata dalla finalità preventiva sottesa al provvedimento, giustifica che il prefetto possa ravvisare l’emergenza di tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé privi dell’assoluta certezza – quali una condanna non irrevocabile, collegamenti parentali con soggetti malavitosi, dichiarazioni di pentiti – ma che, nel loro coacervo, siano tali da fondare un giudizio di possibilità che l’attività d’impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata per la presenza, nei centri decisionali, di soggetti legati ad organizzazioni malavitose.”(Consiglio di Stato , sez. VI, 02 agosto 2006, n. 4737)

Tale ultimo profilo pare al Collegio rivestire portata nodale: non si postula, quale condizione per l’applicabilità delle disposizioni in parola, che ci si trovi al cospetto di una impresa “criminale” (posseduta/gestita/controllata da soggetti dediti ad attività criminali, cioè).

Ma si richiede che vi sia la “possibilità” che essa possa, “anche in via indiretta” favorire la criminalità.

Ciò premesso, deve rilevarsi che -sotto il profilo della astratta legittimazione a fondare il giudizio censurato dall’appellante – non sembra alla Sezione che siano stati travalicati i limiti enucleati dalla giurisprudenza.

E’ invero incontestabile che con la precedente pronuncia demolitoria della Sezione si sia affermato un principio di civiltà giuridica a tenore del quale la semplice sussistenza di rapporti parentali non può pregiudicare il libero dispiegarsi dell’attività imprenditoriale, direttamente tutelata ex art. 41 della Costituzione, ed indirettamente ex art. 2 della Carta Fondamentale medesima.

Tali precetti sono (nuovamente) invocati dall’appellante, a comprova della illegittimità dell’azione amministrativa in relazione alla nuova informativa redatta sulla scorta dei nuovi accertamenti delle forze dell’ordine che registrarono un significativo contatto, a scopo ludico, tra il titolare della società appellante e soggetti pregiudicati e sospettati di essere parte attiva in consorterie criminali operanti sul territorio campano.

Dette censure non persuadono.

Invero è estremamente suggestiva la tesi affermata dall’appellante secondo cui si trattava di contatto determinato dalla residenza nel medesimo (piccolo) centro urbano, e rappresenterebbero il corollario dell’inserimento di un soggetto nel contesto sociale.

Al contrario, nessun automatismo può sussistere tra la necessità di un soggetto di “vivere socialmente”, inserendosi nel tessuto sociale di residenza, e l’accompagnarsi con malavitosi, costituendo quest’ultimo corollario non necessario del “vivere sociale”, e vera e propria elettiva modalità comportamentale.

Di più. Intrattenersi a giocare a carte con un soggetto implica, necessariamente, che con il medesimo si intrattengano rapporti più profondi che quelli limitati ad una superficiale ed occasionale conoscenza.

Al contempo, recarsi in un circolo ricreativo (soprattutto ad accesso ristretto) frequentato da malavitosi, implica ben più che una normale manifestazione di esigenze socializzanti, ma (ove anche si voglia escludere il piacere di incontrare proprio quei malavitosi) la consapevole accettazione del “rischio” che con costoro si conversi, si discuta, si intrattengano rapporti, si entri in confidenza.

Ciò tanto più ove gli incontri avvengano (come nel caso di specie) in un sito la cui frequentazione non rientra tra le necessità endemiche dell’essere umano e non aperto indiscriminatamente al pubblico.

E’ consapevole il Collegio della estrema difficoltà (talvolta ben presente anche alla giurisprudenza penalistica, che pure si avvale di assai più penetranti strumenti investigativi atti a scandagliare portata, significato, e causale, di tali contatti) di esattamente inquadrare tali condotte, e di attribuire ad esse univoco significato.

E purtuttavia, il compito del giudice amministrativo, in subiecta materia, non riposa nell’accertare la valenza ultima di tali contatti (tematica all’evidenza sottratta alla giurisdizione amministrativa).

Premesso che rientra nella sfera discrezionale dell’amministrazione prefettizia in primis e della stazione appaltante, eventualmente, il vaglio probabilistico sul pericolo di infiltrazione, al giudice amministrativo pertiene unicamente il compito di verificare se l’esercizio di tale potere discrezionale sia stato rispondente a criteri di logica e razionalità, censurandolo eventualmente ove emergano profili di abnormità valutativa o travisamento del fatto.

Tali profili patologici sono all’evidenza insussistenti nel caso di specie.

Un conforto di non poco momento sulla esattezza della azione spiegata dall’amministrazione, si rinviene nella giurisprudenza di merito e di legittimità penalistica formatasi in materia di misure di prevenzione, i cui approdi appaiono trasponibili al caso di specie.

Si è all’uopo affermato, da parte della Corte di Cassazione, che “in tema di misure di prevenzione, le prescrizioni accessorie al provvedimento impositivo della sorveglianza speciale, indicate al comma 3 dell’art. 5 l. n. 1423 del 1956 e soggette, in caso di inosservanza, alla sanzione di cui al comma 1 del successivo art. 9, sono costituite dal generico obbligo di “non dare ragione di sospetti” e dallo specifico divieto di “associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne”. Ne consegue che, pur al di fuori di relazioni con carattere di stabilità e di comportamenti connotati di abitualità, l’incontro con pregiudicati può integrare il reato purché assuma carattere di ripetitività tale da cagionare allarme nell’autorità di p.s., non essendo ragionevolmente assoggettabile a sanzione una condotta del tutto isolata e dipendente da normali e non programmate vicende della vita di relazione. (Nella specie la Corte ha ritenuto che fosse stata correttamente affermata la responsabilità dell’imputato in ragione della frequenza degli incontri i quali integrano la violazione solo nel loro insieme e per effetto della reiterazione, ma non isolatamente considerati).” (Cassazione penale , sez. I, 22 settembre 1999, n. 13886).

La giurisprudenza di merito penale si è sempre uniformata a tale autorevole indicazione, ponendo l’accento sulla frequenza e non sporadicità degli incontri, e sulla necessità che la condotta del prevenuto sia valutata in maniera unitaria (si veda, in proposito, tra le tante, Uff. Indagini preliminari Bari, 22 febbraio 2008, ma anche Tribunale Trapani, 26 giugno 2007).

Al contempo, con riferimento alle conseguenze che possono ridondare su un esercizio commerciale, ove frequentato da malavitosi,è bene rammentare che in un recente passato la giurisprudenza amministrativa ha rilevato che l’art. 100 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, rimasto in vigore anche dopo la promulgazione della legge 25 agosto 1991, n. 287 regolatrice dell’attività dei pubblici esercizi, prevede il potere del questore di sospendere la licenza di pubblico esercizio quando nell’esercizio medesimo siano avvenuti tumulti o gravi disordini, oppure esso sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose, oppure esso costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, per la moralità pubblica e il buon costume o per la sicurezza dei cittadini. Il provvedimento ex art. 100, r.d. 773/1931 ha prevalente natura di misura cautelare, con finalità di prevenzione rispetto ai pericoli che possono minacciare l’ordine e la sicurezza pubblica.

Esso prescinde, pertanto, dall’accertamento della colpa del titolare del pubblico esercizio (T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 21 ottobre 2002, n. 6521), essendo prevalente la finalità dissuasiva della frequentazione malavitosa indotta dal periodo di chiusura obbligatoria dell’esercizio stesso (T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, 18 agosto 2003, n. 567).

Analoga valutazione unitaria e sistematica è stata correttamente resa dall’amministrazione.

Il ricorso in appello non tiene conto di tale necessità di valutazione unitaria e globale, ed ne propone il superamento, tentando di isolare e valutare singolarmente le condotte dell’appellante, del pari non fornendo convincenti spunti atti a contrastare la valutazione probabilistica di sussistenza del pericolo infiltrativo sostenuta dall’amministrazione.

Invero – è bene ricordarlo- il “supplemento” di elementi dal quale è scaturita la informazione prefettizia oggetto della odierna disamina si “salda” a quello già contenuto nella prima informativa prefettizia annullata dal Consiglio di Stato con la decisione della Sezione VI, del 7 marzo 2007, n. 1056, che dava atto che il sig. P. Raffaele, socio accomandatario della S.a.s. ricorrente, era imparentato con un esponente di spicco di un clan camorristico, che nel 1988 era stato attinto da colpi da arma da fuoco nel corso di un agguato ove era deceduto un pregiudicato suo amico, e che risultava avere contatti con esponenti del clan camorristico come evidenziato dalla documentazione del procedimento penale presso il GIP, Sez. II, del Tribunale di Napoli, denominato “Spartacus”.

Detti elementi, furono ritenuti, dalla decisione sopracitata, “inidonei a comprovare la pretesa contiguità con ambienti camorristici, trattandosi di una vicenda che risale al 1988, e dunque lontano ben diciotto anni dalla adozione del provvedimento impugnato”.

Gli odierni elementi fattuali consentono, ed anzi impongono, di attualizzare i pregressi dati, con la recente contiguità e frequentazione di cui si è dianzi dato contezza.

Né appare condivisibile la tesi dell’appellante secondo cui i pregressi elementi valutativi, in quanto “coperti” dal giudicato annullatorio, non sarebbero (più) esaminabili dall’amministrazione.

Viceversa, il giudicato annullatorio attinge unicamente il provvedimento siccome fondato sugli elementi suindicati: questi ultimi furono ritenuti insufficienti a fondare il pericolo di infiltrazione camorristica; nulla preclude però che i medesimi elementi possano essere nuovamente valutati, unitamente agli altri medio tempore accertati, e forniscano, come nel caso di specie, un quadro probabilistico legittimante l’applicazione della misura.

Il ricorso in appello non contiene elementi atti a scalfire tale valutazione (fatta propria dai primi giudici) e deve, pertanto, essere respinto con conseguente conferma dell’appellata decisione.

Nessuna statuizione è dovuta sulle spese stante la mancata costituzione in giudizio dell’appellata amministrazione.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione sesta, definitivamente pronunciando sul ricorso in appello epigrafe, lo respinge nei termini di cui alla motivazione, con conseguente conferma dell’appellata sentenza.

Nulla per le spese.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 novembre 2009 con l’intervento dei Signori:

Giovanni Ruoppolo, Presidente

Luciano Barra Caracciolo, Consigliere

Rosanna De Nictolis, Consigliere

Domenico Cafini, Consigliere

Fabio Taormina, Consigliere, Estensore

 

 

L’ESTENSORE
IL PRESIDENTE
 

 

 

 

 

Il Segretario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 11/12/2009

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

Il Dirigente della Sezione

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Andrea Maso